𝐐𝐔𝐀𝐍𝐃𝐎 𝐑𝐎𝐌𝐀 𝐅𝐈𝐍𝐈𝐕𝐀 𝐒𝐎𝐓𝐓'𝐀𝐂𝐐𝐔𝐀. 𝐋𝐀 𝐂𝐎𝐒𝐓𝐑𝐔𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐃𝐄𝐈 "𝐌𝐔𝐑𝐀𝐆𝐋𝐈𝐎𝐍𝐈" Di 𝙄𝙧𝙚𝙣𝙚 𝙎𝙖𝙡𝙫𝙖𝙩𝙤𝙧𝙞 Il Tevere è stato da sempre la ricchezza e uno dei tormenti di Roma. Periodicamente, il fiume straripava allagando le zone più basse della città, in particolare il Campo Marzio, la valle del Circo Massimo (Vallis Murcia) e quella del Foro Romano (Velabro), le più vicine al corso d’acqua. Secondo Rodolfo Lanciani le inondazioni sono state 132. Ogni straripamento lasciava dietro di sè morti e crolli di edifici e quando le acque si ritiravano, lasciando fango e melma stagnanti, erano causa di numerose epidemie. Passeggiando per il centro storico, di frequente ci si imbatte nelle epigrafi che ricordano le inondazioni e l’altezza raggiunta dalle acque in piena in quel punto. La memoria più antica è al Rione Ponte, dove una lapide all’Arco dei Banchi ci ricorda l’alluvione del 5 novembre 1277: “𝐻𝑢𝑐 𝑇𝑦𝑏𝑒𝑟 𝑎𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑡 𝑠𝑒𝑑 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑑𝑢𝑠 ℎ𝑖𝑛𝑐 𝑐𝑖𝑡𝑜 𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑡 𝐴𝑛𝑛𝑜 𝐷𝑜𝑚𝑖𝑛𝑖 𝑀𝐶𝐶𝐿𝑋𝑋𝑉𝐼𝐼 𝐼𝑛𝑑 𝑉𝐼. 𝑀. 𝑁𝑜𝑣𝑒𝑚𝑏. 𝑑𝑖𝑒 𝑉𝐼𝐼. 𝐸𝑐𝑐𝑙 𝑎 𝑣𝑎𝑐𝑎𝑛𝑡𝑒". "Qui arrivò il Tevere, ma torbido; di qui presto si ritirò nell'anno del Signore 1277, sesta indizione, settimo giorno del mese di Novembre; mentre la chiesa era vacante." E ancora, nei pressi della chiesa di S. Eustachio, su un’altra targa si legge: "𝑁𝑒𝑙𝑙'𝑎𝑛𝑛𝑜 1495 𝑖𝑙 𝑇𝑒𝑣𝑒𝑟𝑒, 𝑎 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜 𝑠𝑒𝑟𝑒𝑛𝑜, 𝑐𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑓𝑖𝑛𝑜 𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑛𝑎𝑒 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑒𝑚𝑏𝑟𝑒 - 𝐴𝑙𝑒𝑠𝑠𝑎𝑛𝑑𝑟𝑜 𝑉𝐼 𝑃𝑎𝑝𝑎 - 𝐴𝑛𝑛𝑜 𝐼𝐼𝐼". Dopo l’inondazione, terribile (di 17,22 metri) e dalle conseguenze disastrose, del 28 dicembre 1870, lo Stato italiano decise la costruzione degli argini di travertino, o “Muraglioni”, che se pur risolsero uno dei problemi da cui da secoli era afflitta la città, d’altro canto ruppero quel legame indissolubile che legava, da migliaia di anni, Roma al suo fiume. La costruzione degli argini terminò nel 1926. Le distruzioni furono particolarmente gravose nel 𝙥𝙤𝙧𝙩𝙤 𝙙𝙞 𝙍𝙞𝙥𝙖 𝙂𝙧𝙖𝙣𝙙𝙚, sulla riva destra del Tevere, e nel 𝙥𝙤𝙧𝙩𝙤 𝙙𝙞 𝙍𝙞𝙥𝙚𝙩𝙩𝙖 , risistemato, precedentemente, da Alessandro Specchi con grandi scalinate semicircolari e una fontana a scogliera. Qui esisteva la splendida Villa Altoviti, con affreschi di Giorgio Vasari e ricca di reperti archeologici. Il suo abbattimento risale al 1889, al momento in cui il nuovo quartiere di Prati fu dotato degli imponenti muraglioni oggi visibili. Di seguito le foto delle due targhe, del porto di Ripetta, Villa degli Altoviti e vari immagini di Roma prima degli argini e degli stessi in costruzione. Foto da web
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𝗜 𝗤𝗨𝗔𝗧𝗧𝗥𝗢 𝗦𝗧𝗜𝗟𝗜 𝗗𝗘𝗟𝗟𝗔 𝗣𝗜𝗧𝗧𝗨𝗥𝗔 𝗥𝗢𝗠𝗔𝗡𝗔
Di Irene Salvatori Un breve accenno alla pittura romana e ai suoi quattro stili detti, convenzionalmente, "pompeiani". Questo aggettivo deriva dal fatto che la maggioranza delle pitture -e quindi uno studio sulla loro evoluzione- è stata rinvenuta nel celebre sito di Pompei. 𝐏𝐫𝐢𝐦𝐨 𝐬𝐭𝐢𝐥𝐞 (150 a.C.-80 a.C. circa) è una pittura esclusivamente decorativa, non ci sono soggetti ma la riproduzione di materiali pregiati come il marmo. 𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐭𝐢𝐥𝐞 (80 a.C.-20 a.C. circa) con effetto di trompe l'œil vengono affrescate vedute di paesaggi inquadrati da portici o finestre; scorci di giardini con piante e animali, scene che rappresentano a tutto campo uomini e donne. Grande attenzione ai particolari che vengono resi con abili prospettive. 𝐓𝐞𝐫𝐳𝐨 𝐬𝐭𝐢𝐥𝐞 (20 a.C.-50 d.C. circa) la parola d’ordine è semplificazione. Scompaiono le vedute ariose e si divide in maniera gerarchica le pareti; prevale un unico colore di fondo, spesso il rosso o il nero, al centro del quale sono rappresentati dei quadretti, i 𝑝𝑖𝑛𝑎𝑘𝑒𝑠, con figure, finte nicchie, piccoli paesaggi. Molte di queste pitture sono state ritrovate anche nelle residenze di personaggi di ceto medio: siamo agli inizi dell’impero. 𝐐𝐮𝐚𝐫𝐭𝐨 𝐬𝐭𝐢𝐥𝐞 (dal 50 d.C.) detto anche “stile illusionista”, si torna alla pittura di scenari in prospettiva, ma adesso vengono aggiunte le figure umane, mentre gli elementi architettonici, che sembrano delle quinte teatrali, non sono dipinti ma realizzati in rilievo con lo stucco. Di seguito le immagini dei quattro stili Foto da Web𝗕𝗘𝗟𝗟𝗢𝗡𝗔, 𝗟𝗔 𝗗𝗘𝗔 𝗗𝗘𝗟𝗟𝗔 𝗚𝗨𝗘𝗥𝗥𝗔 di Irene Salvatori È il 3 giugno del 296 a.C. e il Senato romano decide di votare un tempo nel Campo Marzio a Bellona, la dea della guerra (da bellum), nonchè, a volte, ritenuta la compagna di Marte. Oggi se ne possono vedere pochi e sparuti resti nell'area antistante il noto Teatro di Marcello. Siamo dunque nel III secolo, un momento storico che vede Roma impegnata nella conquista nei territori confinanti. Il tempio si trovava al di fuori delle mura urbane e quindi in "territorio nemico". Di fronte al tempio si svolgeva una cerimonia antica affidata ai 𝒇𝒆𝒕𝒊𝒂𝒍𝒆𝒔 che, dalla 𝒄𝒐𝒍𝒖𝒎𝒏𝒂 𝒃𝒆𝒍𝒍𝒊𝒄𝒂, un pilastro che simboleggiava il confine tra territorio romano e quello nemico, lanciavano una lancia verso i nemici come atto di dichiarazione di guerra. Tale rituale fu compiuto una prima volta nel 280 a.C. e già alla fine della Repubblica era divenuto desueto. Narrano gli storici romani che qui Silla, dopo aver occupato Roma, parlò, con voce pacata ma minacciosa, ai senatori riuniti, mentre poco lontano si udivano le voci dei seguaci di Mario che venivano trucidati. A far tornare in auge il rito fu Augusto che, nel 32 a.C., dichiarò da qui guerra a Cleopatra. Il tempio - lo si evince dalla Forma urbis severiana- aveva 6 colonne di fronte e nove ai lati. Del luogo dove sorgeva la famosa colonna si è perduta la memoria ma sembra possa essere identificato con un'area circolare rinvenuta davanti al tempio. Le foto mostrano i resti del Tempio di Bellona oggi, una ricostruzione ipotetica e gli scavi per l'apertura di via del Mare. foto da web 𝟓 𝐠𝐢𝐮𝐠𝐧𝐨 𝟏𝟗𝟒𝟒
𝐔𝐠𝐨 𝐅𝐨𝐫𝐧𝐨, 𝐢𝐥 𝐛𝐚𝐦𝐛𝐢𝐧𝐨 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐠𝐢𝐚𝐧𝐨. "Gli americani ormai sono a Roma, sfilano e si scattano foto sui carri armati. Roma è in festa. Non per tutti è così però. La mattina, sul presto, esce di casa il giovane studente di 12 anni Ugo Forno. A piazza Vescovio viene a sapere, da alcune persone, che un reparto di guastatori tedeschi sta cercando di far saltare il ponte ferroviario sull’Aniene. Con altri cinque ragazzi, Antonio e Francesco Guidi, Luciano Curzi, Vittorio Seboni e Sandro Fornari, corre sul posto armato di fucile. I giovani partigiani trovano i soldati che stanno piazzando cariche di esplosivo sotto il Ponte Salario. Ne nasce uno scontro a fuoco furibondo. I tedeschi hanno un mortaio e sparano tre colpi. Il primo a cadere è Guidi. Poi vengono feriti gravemente Curzi e Fornari. Ugo viene colpito a morte dal terzo colpo. I gappisti che accorrono sul ponte lo trovano ancora con il fucile in mano e, avvolto in un tricolore, lo portano in una clinica poco distante. È là che verrà riconosciuto dai genitori. Quel giorno il ponte non fu distrutto per l’eroico coraggio di un ragazzino e dei suoi amici, ed è a loro che Rosellini si è ispirato nella scena finale del film «Roma città aperta». Ugo è l’ultima vittima partigiana dei tedeschi in ritirata da Roma. «Giovane studente romano, durante i festeggiamenti per la liberazione della città di Roma, appreso che i tedeschi, battendo in ritirata, stavano per far saltare il ponte ferroviario sull’Aniene, con grande spirito di iniziativa, si mobilitava, unitamente ad altri giovani, e con le armi impediva ai soldati tedeschi di portare a compimento la loro azione. Durante lo scontro a fuoco veniva, tuttavia, colpito perdendo tragicamente la vita. Fulgido esempio di amor patrio ed encomiabile coraggio». Medaglia d’Oro al Valor civile, 16 gennaio 2013 " Da "Roma violata". Ed. Mursia. Irene Salvatori. 𝐔𝐧 𝐛𝐢𝐦𝐛𝐨... 𝐩𝐞𝐫 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞
" Il sole era alto nel cielo e la giornata era veramente molto calda. Il bambino si guardava intorno inquieto. Aveva giocato con le sue noci ma ora si era stancato. Aveva deciso di andare a cercare qualche bella lucertola da stanare per divertirsi un po’ quando vide quello che non avrebbe dovuto vedere: una distesa di tegole si asciugavano al sole, aspettando di essere infornate. Si guardò intorno: non c’era nessuno. Si avvicinò a osservarle. Erano quadrate e piuttosto grandi. Su alcune c’era anche una stampigliatura rotonda. Aveva visto altre volte quei timbri, sapeva che indicavano il nome del proprietario della fabbrica o i nomi dei consoli in carica. Cercò di avvicinarsi per vedere meglio ma la luce era abbagliante e il segno troppo piccolo. Fu allora che gli venne la tentazione di farlo. Era già stato rimproverato per una cosa del genere e gli avevano detto di non farlo mai più. Ma in giro non c’era nessuno e immaginando che l’argilla fosse ancora fresca nonostante il sole, pregustò il piacere di far affondare il piede in quell’impasto umido, morbido e resistente allo stesso tempo. Scelse con cura quella che gli sembrava la tegola riuscita meglio e si avvicinò. Appoggiò piano il piede e poi premette, facendo forza con la punta del piede. Sotto un primo contatto caldo, l’argilla era effettivamente umida come l’aveva immaginata. Lasciò il piede per qualche istante perché la forma rimanesse bene impressa, poi lo alzò per guardare il risultato. Perfetto. Ridendo sotto i baffi sgattaiolò via in punta di piedi. Immaginava la faccia che avrebbero fatto quando avrebbero scoperto quella tegola. L’avrebbero usata? L’avrebbero buttata via? Avrebbero fatto finta di niente? Quello che davvero non poteva immaginare era che la prova della sua disubbidienza sarebbe rimasta impressa per sempre e che, 1897 anni dopo, sarebbe stata ancora sotto gli occhi di tutti" Fonte: Museo Nazionale Romano ©Archivio Fotografico MNR Bollo con i nomi dei consoli Petino e Aproniano, 123 d.C. Dalla via Appia 𝐒𝐔𝐋𝐏𝐈𝐂𝐈𝐎, 𝐈𝐋 𝐁𝐀𝐌𝐁𝐈𝐍𝐎 𝐏𝐑𝐎𝐃𝐈𝐆𝐈𝐎
di 𝙄𝙧𝙚𝙣𝙚 𝙎𝙖𝙡𝙫𝙖𝙩𝙤𝙧𝙞 Chiunque passeggi nelle vicinanze di piazza Fiume, a Roma, si imbatte in un monumento funebre, addossato alle Mura Aureliane, che dà mostra di sè con pacata discrezione. Il sepolcro appartiene a un fanciullo di 2000 anni fa, Quinto Sulpicio Massimo, e oggi si trova all’incrocio tra via Piave e la via che porta il nome del ragazzino della tomba, appunto via Sulpicio Massimo. Il rinvenimento fu fortuito: nel corso del cannoneggiamento delle mura del 1870, Porta Salaria fu rovinosamente danneggiata a tal punto che, nel 1871, si venne alla decisione di abbattere la porta rinvenendo, inglobato nelle fondamenta della torre ad est della stessa, il monumento funebre di 𝗤𝘂𝗶𝗻𝘁𝗼 𝗦𝘂𝗹𝗽𝗶𝗰𝗶𝗼 𝗠𝗮𝘀𝘀𝗶𝗺𝗼. Quello che oggi ammiriamo è solo una copia, l’originale è stato portato anni fa alla Centrale Montemartini. Accanto al monumento, si rinvenne anche un altro sepolcro a camera di epoca sillana, il cui proprietario è rimasto ignoto. Ma chi era Sulpicio? Un bambino prodigio scomparso prematuramente. Lo sappiamo, ci sono dolori che trascendono il tempo e lo spazio. I genitori di Quinto Sulpicio Massimo, addolorati ma orgogliosi, vollero rendere omaggio al figlio, morto a 11 anni, ma già famoso per aver partecipato, appena decenne, al terzo 𝑐𝑒𝑟𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛 capitolino (una gara di poesia di alto profilo). Lui, un bambino, in mezzo ad altri 52 poeti (e tra questi anche il noto poeta Stazio), nel 94 d.C. si esibì nello Stadio di Domiziano, davanti a migliaia di persone. Il suo componimento non vinse, ma ottenne una corona, una sorta di premio della critica, come apprezzamento da parte dei giudici, stupiti nel vedere tanta competenza in un ragazzo così giovane. La folla, al pari dei giudici, acclamò questo giovane talentuoso agitando palme e intonando cori. Il monumento funebre di Sulpicio è interamente ricoperto dal testo in greco, come era previsto dalla gara, e in latino, del componimento presentato al 𝑐𝑒𝑟𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛 . In questo tipo di gare, a ogni concorrente veniva affidato un soggetto poetico estratto a sorte sul quale, là su due piedi, l’aspirante “novello Virgilio” doveva improvvisare un componimento. Al giovane Sulpicio, leggiamo sul monumento, venne assegnato il mito di Fetonte. In pratica la ramanzina di Giove ad Apollo, accusato di essere stato troppo indulgente con il figlio Fetonte. Dopo la gloria, l’abisso. La fine del ragazzino fu tragica e inaspettata. Alla fine dell’estate del 94 d.C. il fanciullo, per il troppo studio si ammalò e morì, lasciando ai genitori la dolorosa consapevolezza della sua perdita. "𝐴𝑔𝑙𝑖 𝐷𝑒𝑖 𝑀𝑎𝑛𝑖. 𝑃𝑒𝑟 𝑄𝑢𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑆𝑢𝑙𝑝𝑖𝑐𝑖𝑜 𝑀𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚𝑜, 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑄𝑢𝑖𝑛𝑡𝑜, 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢̀ 𝐶𝑙𝑎𝑢𝑑𝑖𝑎, 𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑅𝑜𝑚𝑎 𝑒 𝑣𝑖𝑠𝑠𝑢𝑡𝑜 11 𝑎𝑛𝑛𝑖 5 𝑚𝑒𝑠𝑖 𝑒 12 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖. 𝐸𝑔𝑙𝑖, 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑧𝑎 𝑐𝑒𝑙𝑒𝑏𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑞𝑢𝑒𝑛𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑔𝑖𝑜𝑐ℎ𝑖 𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑜𝑙𝑖𝑛𝑖, 𝑡𝑟𝑎 52 𝑝𝑜𝑒𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝐺𝑟𝑒𝑐𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑐𝑜𝑠𝑠𝑒 𝑎𝑝𝑒𝑟𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑖 𝑓𝑎𝑣𝑜𝑟𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑓𝑢𝑟𝑜𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑣𝑒𝑔𝑙𝑖𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑎 𝑔𝑖𝑜𝑣𝑎𝑛𝑒 𝑒𝑡𝑎̀, 𝑖𝑙 𝑠𝑢𝑜 𝑖𝑛𝑔𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑠𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑜̀ 𝑎𝑚𝑚𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑒 𝑑𝑖𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖̀ 𝑐𝑜𝑛 𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒. 𝐼 𝑠𝑢𝑜𝑖 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑣𝑣𝑖𝑠𝑎𝑡𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑠𝑖 𝑠𝑢 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑡𝑜𝑚𝑏𝑎, 𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑖 𝑔𝑒𝑛𝑖𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑙𝑜𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑠𝑢𝑜 𝑡𝑎𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑒𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑖𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑡𝑖 𝑢𝑛𝑖𝑐𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑎𝑙 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑎𝑓𝑓𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑢𝑖. 𝑄𝑢𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑆𝑢𝑙𝑝𝑖𝑐𝑖𝑜 𝐸𝑢𝑔𝑟𝑎𝑚𝑜 𝑒 𝐿𝑖𝑐𝑖𝑛𝑖𝑎 𝐼𝑎𝑛𝑢𝑎𝑟𝑖𝑎, 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑙𝑖𝑐𝑖𝑠𝑠𝑖𝑚𝑖 𝑔𝑒𝑛𝑖𝑡𝑜𝑟𝑖, 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑟𝑜𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑡𝑒𝑛𝑒𝑟𝑖𝑠𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑒𝑟𝑖”. |
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March 2023
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