LA MORTE NEL MONDO ROMANO
“Riti e ideologia della morte ” Parte prima Irene Salvatori “un morto non sia né seppellito né bruciato entro la città [...] non si faccia più di questo: il legno del rogo non venga levigato con l’ascia [...] le donne non si graffino le guance e durante la sepoltura non intonino lamentazioni [...] di un uomo morto non si raccolgano le ossa per fare poi un funerale solenne [...] si fa eccezione per la morte in terra straniera o in guerra [...] a chi è stato incoronato per merito suo o della sua famiglia o per particolare valore, può essere messa la corona (sul cadavere) [...] e non deve essere usato oro (nella sepoltura) neppure se (al defunto) i denti sono stati legati tra loro. Se però egli viene sepolto o bruciato con l’oro, non sia considerato illecito”. Queste, appena elencate, sono alcune delle norme delle famose XII Tavole della Legge scritte intorno alla metà del V secolo a.C. che furono alla base di un nuovo modo d’interpretare la realtà in senso propriamente giuridico, togliendo la legge dal libero arbitrio dei patrizi e gettando le basi di un diritto uguale per tutti. Nella Tavola X, in particolare, si parla dell’insieme di prescrizioni che regolavano divieti, onori e disposizioni ai quali la famiglia del defunto doveva scrupolosamente attenersi (anche se nel tempo molte delle regole elencate verranno aggirate). A Roma sono numerose le tombe e le necropoli che in secoli di ruberie e scavi sono state riportate alla luce. Camminare lungo la via Appia antica è tornare indietro di 2000 anni e, tra ville e tombe di quel tempo lontano, la mente vola cercando tra i resti rimasti brandelli di una pietas oggi sepolta dai secoli. Tralasceremo, in questa sede, i riti relativi alle tombe più antiche della tarda età del bronzo, alcune delle quali sono state rinvenute nell’area oggi dei Fori imperiali e delle pendici del Campidoglio o di quelle più recenti, dell’età del ferro, sparse un po’ ovunque ma ben attestate nella piccola necropoli del Foro romano. Vorrei invece soffermarmi su quell’insieme di rituali (che le fonti storiche ci hanno descritto con dovizia di particolari) alcuni dei quali sono arrivati a noi, che li ripetiamo dopo 2000 anni, a volte senza saperne il perché. La prima premessa è che sia che si fosse ricchi, benestanti o poveri, tutti volevano una sepoltura dignitosa. La seconda premessa è che la morte era considerata impura e, in quanto tale, al momento del decesso di un congiunto, i familiari operavano in due direzioni, la sepoltura vera e propria e la purificazione della famiglia. Nelle classi più agiate e nelle famiglie più illustri morire diventava un evento sociale se non addirittura pubblico, e il complesso cerimoniale dei funerali e delle lodi ricordava a tutti chi era stato il defunto e quale ruolo avesse avuto in seno alla società. La morte era teatralizzata; un palcoscenico di onori e prestigio sul quale si muoveva la famiglia. Nel momento in cui moriva un personaggio pubblico, la dipartita veniva annunciata da un araldo, il corteo funebre arrivava al foro e là, davanti alla tribuna dei rostra con la laudatio funebris, l’erede lodava le gesta esemplari del defunto e della famiglia, a partire dal capostipite. Tanti più “morti illustri” aveva una famiglia, tanto più peso aveva la famiglia nell’establishment della società. Ovviamente non per tutti era così. Per la maggior parte delle persone che viveva a Roma la morte era qualcosa di molto più modesto, la cui socialità si fermava al ristretto gruppo di parenti e amici. In ogni caso, medesimi erano i gesti che si compivano. Funus era chiamato l’insieme di cerimonie, eseguite in un ordine ben preciso, che andavano dalla morte alla sepoltura vera e propria. Al momento della dipartita o pochi istanti prima, il parente più stretto baciava per l’ultima volta il congiunto, come a voler trattenere in sé l’ultimo respiro, gli chiudeva gli occhi e tutti i presenti pronunciavano tre volte, ad alta voce, il nome del defunto, conclamatio. La cerimonia della chiusura degli occhi sembra essere molto antica se è già presente nell’Odissea: così Agamennone, ucciso dalla moglie al ritorno dalla Guerra di Troia, racconta ad Ulisse nell’Ade “…e quella faccia di cagna se ne andò senza curarsi di chiudermi gli occhi e la bocca mentre scendevo nell’Ade…”. Fuori dall’abitazione venivano appesi dei rami di quercia per ufficializzare il lutto della famiglia. A questo punto i più benestanti chiamavano i libitinarii, che, sotto la tutela della dea Libitina, si occupavano dei funerali, come le nostre moderne imprese funebri, e registravano il decesso in appositi archivi. Il corpo veniva subito posto, anzi “deposto” sul pavimento, a ricordare che siamo parte della terra e là prima o poi dobbiamo tornare. In questo momento cominciavano i riti del lavaggio e della vestizione del defunto. In questa fase intervenivano i pollinctores aiutati dalle donne della famiglia. Al morto veniva messo il vestito più bello, in genere la toga (se uomo), che variava nella fattura o nel colore in base allo status sociale e all’età del defunto. Sempre i pollinctores erano incaricati di ricavare una maschera di cera dal viso del defunto, che fosse il più possibile somigliante. Queste maschere, vedremo dopo, venivano portate ai funerali e saranno alla base della nascita del vero ritratto romano. Era usanza che che sugli occhi o sulla bocca o nelle mani del morto venisse messa una moneta per pagare Caronte, il traghettatore delle anime. A questo proposito lo storico e geografo Strabone racconta di una curiosa storia per cui il popolo di Ermione, in Argolide, era esentato dal porre il famoso obolo per i propri defunti perchè abitava vicino ad uno dei passaggi per l’Ade. Ora il morto era pronto per essere collocato nella parte pubblica della casa, l’atrium, e iniziava la veglia che poteva durare da tre a i sette giorni. Intorno al feretro venivano posti fiori e piante aromatiche, come omaggio e per coprire l’inevitabile odore: ecco perchè anche noi oggi portiamo i fiori ai funerali… Accanto e intorno al letto funebre, se il trapassato aveva ricoperto delle cariche in vita, venivano collocate delle tavolette con il cursus honorum, in modo che tutti vedessero il valore della persona scomparsa. Piccola nota: nelle nostre grandi città l’usanza della veglia come fatto sociale è praticamente scomparsa e il funerale, spesso, è un evento privato. Al contrario, nelle piccole realtà cittadine e rurali è ancora molto vivo il costume sociale di dare l’ultimo saluto al defunto da parte dell’intera comunità, che si raccoglie intorno alla famiglia in segno di rispetto e sostegno. Ma torniamo nell’antica Roma. E’ ora il momento delle donne. Alla veglia vengono chiamate praeficae che, a pagamento, gemono, si strappano i capelli, si battono il petto e cantano litanie, il tutto sotto la regia della prefica più anziana e esperta. Le donne della famiglia sono esonerate poichè non è dignitoso per una donna romana indulgere in tali manifestazioni di dolore. In genere i funerali si tenevano di notte, ma quest’usanza ben presto fu riservata alle donne e in seguito solo ai poveri e ai bambini. Anche oggi quando muore una persona le onoranze funebri pongono davanti al defunto delle finte fiaccole, a ricordo dei funerali notturni. Nel caso di un personaggio illustre il funerale si svolgeva verso mezzogiorno, previo annuncio di un banditore pubblico. Allora il corteo lasciava l’abitazione e si dirigeva al Foro. Guidavano il corteo i musici seguiti da mimi, che indossavano le maschere degli altri antenati celebri della famiglia. Uno tra questi, l’arcimimus, avanzava parlando delle virtù e dei vizi del defunto, imitandone andatura e movimenti e a volte scadendo nel ridicolo; un modo forse per esorcizzare il dolore e la morte. Seguivano i littori con i fasci rovesciati verso il basso, i parenti più stretti e poi tutti gli altri. Della complessità del funerale e del corteo delle famigli gentilizie ci parla con dovizia di particolari Polibio, storico greco che visse a Roma nel II secolo a.C. “…nel giorno del funerale, annunciato da un banditore pubblico, e all’ora stabilita, partiva dalla casa del defunto un imponente corteo funebre, aperto dai musici, a cui seguivano i portatori di fiaccole, le prefiche in atteggiamenti di disperazione, i danzatori, i mimi e il carro su cui erano sedute persone che indossavano le mascere di cera degli antenati, con in testa l’avo più antico, seguito dagli altri, in rigido ordine cronologico. Quindi, preceduto dai littori, vestiti di nero e con i fasci rovesciati, avanzava, portato a spalla, il feretro con il defunto adagiato su un ricco letto funebre, seguito dalla moglie, dai figli, dai parenti e dai portatori di tituli, che chiudevano il corteo… e una volta giunti a rostri, si siedono tutti in fila su seggi d’avorio...il defunto viene adagiato in piedi e quasi mai supino. Attorniato da tutto il popolo, il figlio… sale sui rostri e parla del valore del defunto e delle imprese compiute durante la sua vita… dopo la sepoltura e le cerimonie di rito, l’immagine del defunto viene posta nel luogo più in vista della casa, in un sacrario di legno (arcaria, armadi)…in occasione dei sacrifici pubblici i Romani mettono in vista queste immagini e le onorano solennemente, e quando muore un altro illustre membro della famiglia le fanno partecipare al rito funebre…” Polibio, Storie, 6, 53,54, 55. (Per i più poveri il tutto si risolveva nel saluto dei parenti e il corpo veniva portato all’estrema dimora dai vespilliones). In segno di lutto gli uomini si facevano crescere la barba, le donne scioglievano i capelli e tutti vestivano con abiti grigi o neri. Ci tramandano le fonti che le vedove non potevano risposarsi prima di una anno. In ogni caso il lutto era proporzionale al peso che il defunto aveva avuto all’interno della società. Si vietava di tenere un lutto duraturo per i bambini perché la loro influenza nella vita cittadina era pari a nulla... ovviamente la teoria era una cosa la pratica un’altra: il dolore era ovviamente accettato, ma solo in forma privata e non come esternazione pubblica. Le immagini e le laudazioni sono il momento culminante del funerale. È l’autocelebrazione della classe dirigente. Dalle immagini di cera, nascerà l’idea del ritratto, in senso moderno, lontano dal lirismo e idealismo dell’arte greca. È ora il momento di accompagnare il defunto alla sua ultima dimora. Il luogo dove avverrà la sepoltura è detto locus purus, cioè senza alcuna funzione specifica e non ancora utilizzato, in seguito alla consacrazione fatta dal pontefice diventa locus religiosus (dedicato ai defunti), e nessuno, tranne il pontefice massimo ha il diritto di cambiarne la destinazione d’uso, tanto meno spostare una tomba. Se il rito scelto era l’inumazione, il defunto veniva collocato in una bara, di vario materiale, secondo le possibilità. Generalmente per l’epoca repubblicana, pur essendo attestato anche da illustri famiglie (esempio noto sono i sarcofagi degli Scipioni), questo rito è riservato solo ai bambini e alle persone più indigenti; diventa invece di uso comune nel II secolo d.C. I corpi venivano deposti supini o in posizione fetale. Le sepolture più umili venivano ricoperte da laterizi o coperchi di legno, le più sontuose venivano alloggiate in camere funerarie con alzati imponenti. Se si sceglieva la cremazione questa aveva due opzioni, sempre relativamente alle possibilità economiche. La prima era il bustum (da bene ustum, ben bruciato), il corpo cioè veniva cremato nello stesso luogo della sepoltura scavando una fossa e adagiando sulla stessa la legna e il corpo. L’altra soluzione prevedeva la cremazione in appositi luoghi detti ustrina, e in seguito le ceneri e le ossa, raccolte in un urna o un olla, venivano portate nel luogo scelto. Al momento del rogo i parenti gettavano nel fuoco oggetti rituali e fiori. Dopo il rogo le ossa combuste venivano separate dalle ceneri e irrorate di vino. Tale pratica viene ciamata ossilegium. Ma sempre, nel caso della cremazione, veniva prima asportata una piccola parte del corpo, in genere il dito mignolo (os resectum) e sepolta. Questo atto insieme a quello di gettare qualche manciata di terra sulla sepoltura, che anche noi oggi facciamo, prima che venisse chiusa, simboleggiava il ritorno dell’uomo alla madre terra. Iniziava ora il momento del commiato e della purificazione di coloro che erano stati a contatto con il morto. Lo stesso giorno nelle vicinanze della tomba, i parenti, vestiti di scuro, allestivano il banchetto funebre, silicernum, e si lasciavano offerte presso la tomba. Dopo nove giorni dal funerale si allestiva un nuovo banchetto (stavolta i parenti erano vestiti con abiti chiari o bianchi) detto cena novendialis e si beveva in onore degli dei Manes (antenati benevoli); chi poteva permetterselo sacrificava un montone castrato da consumare nel periodo della purificazione. Finito il tempo della “decontaminazione” i membri della famiglia potevano tornare alle proprie attività. Per le classi meno agiate, ma non completamente povere, il modo migliore per avere garantiti funerali e sepoltura dignitosi era associarsi a uno dei collegia che, previo il versamento di una quota mensile o annuale, garantivano ai propri iscritti un funerale e una tomba più che degni. Sull’Appia e sulla via Latina vi sono almeno due esempi rimasti. La sede di un collegium molto probabilmente è da riconoscere nell’edificio sorto nelle immediate adiacenze della famosa tomba degli Scipioni, ed è una costruzione a più piani inglobata in un’abitazione settecentesca. L’altro è il sepolcro del collegio dei Pancrazi sulla via Latina. Ce ne sono molti altri ma questi sono tra i più rappresentativi. Abbiamo ampia testimonianza, inoltre, che oltre ai collegia, per l’acquisto di un luogo di sepoltura a prezzo contenuto o basso, ci si poteva rivolgere alle molte famiglie di liberti arricchiti, che compravano lotti di terreno e vi costruivano tombe con loculi detti colombari, i quali venivano affittati o venduti a chi ne avesse fatto richiesta. Ma di questo parleremo più diffusamente nella seconda parte relativa alle tipologie tombali. Che rapporto avevano i Romani con la morte? Credevano nell’al di là? Le testimonianze sono discordanti ma in generale è diffusa la credenza della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. A parte qualche eletto, non c’è però meritocrazia nell’oltretomba. L’idea che il comportamento in questa vita abbia meriti o punizioni dopo la morte è tipicamente cristiano ed estraneo alla mentalità greco-romana. Una documentazione ampia sui Romani e la morte è attestata a partire dal I secolo a.C. Abbiamo quindi la testimonianza da Ovidio e Cicerone che gli dei Mani siano una collettività di antenati che, se placati e ben ossequiati, proteggono la propria discendenza. La tomba era la casa del defunto, o almeno la prima dimora dopo la morte. Con l’arrivo a Roma di culti orientali e misterici il mondo dell’oltretomba si articola e compaiono anche varie dottrine soteriologiche. Tutto ciò ci dimostra che, rispetto ad altre culture coeve o limitrofe, i Romani abbiamo meno certezze. I defunti venivano onorati nel nome di Lari e Penati, all’interno di ogni casa. Ma guai a non espletare a dovere i riti previsti! Le anime insepolte o dimenticate diventavano larvae o lemurae, pericolose per la loro ascendenza negativa sul mondo dei vivi. Annualmente a Roma si celebravano feste in onore dei defunti. A febbraio, dal 13 al 21, si onorava la ricorrenza dei Parentalia. L’ultimo giorno, il 21 detto Feralia, equivaleva al nostro 2 novembre. In questo periodo i templi rimanevano chiusi, i magistrati non indossavano la toga praetexta e non si celebravano matrimoni. Si andava presso le tombe dei propri congiunti e si deponevano offerte e fiori, un po’ come facciamo noi. Altra festa dedicata ai morti era il 9, 11 e 13 maggio, i Lemuria, per allontanare le anime vaganti che avrebbero potuto infestare le case. L’ultimo giorno il capo famiglia compiva una cerimonia di “esorcismo”. A mezzanotte, scalzo, si aggirava per la casa e si gettava alle spalle per nove volte delle fave nere, ripetendo formule propiziatorie. Altra festa di maggio in onore dei defunti erano i Rosalia. Le rose insieme alle viole erano i fiori funebri per eccellenza, simbolo della bellezza della vita, ma anche della sua precarietà. Al momento della fioritura le tombe erano invase da rose scelte tra le più belle e più profumate. Il corteo erano in pochi a poterselo permettere ma un fiore ai propri cari potevano portarlo tutti...
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PASSEGGIANDO TRA I MITREI DI OSTIA ANTICA
IL CULTO DI MITRA Irene Salvatori Sono due le città che dal mondo antico sono arrivate a noi in tutto il loro splendore: Pompei e Ostia antica. Questi due siti, più di altri, solleticano l’immaginario dei visitatori offrendosi agli sguardi, stupiti e increduli, di fiumi di turisti che ogni giorno ripopolano le antiche strade romane. Due città con due storie diverse. L’una, Pompei, è un’istantanea scattata in un giorno qualunque di fine estate, inizio autunno secondo le più recenti ricerche. E come una fotografia, in quel giorno, la vita fu congelata da una tragedia immane, l’attimo divenne eterno, per sempre. Ostia antica al contrario si mostra in tutte le fasi di una città. Dal più antico castrum alla decadenza e all’abbandono, passando per lo splendore del secolo di Traiano e degli Antonini. L’area di Ostia antica, il cui nome deriva da ostium- foce, si presenta agli occhi dello studioso quanto del turista, come fonte inesauribile di bellezze archeologiche. Passeggiare tra le rovine di antiche domus, di insulae, di botteghe, terme e templi ci trasporta in un tempo lontano, talmente in là da sembrare una favola Poco si sa della vita della città prima della fondazione del castrum-accampamento del IV secolo a.C. Le fonti collocano tale fondazione nel regno del quarto re di Roma, Anco Marcio, nell’ambito di un periodo che vede l’Urbe allargare i propri confini nei territori vicini. Il controllo delle Saline (il sale è un bene assoluto nel mondo antico) e dello sbocco del Tevere sul mare, furono tra i motivi che spinsero la città a installare in quel punto un avamposto militare. Si tratta della prima colonia e gli autori antichi narrano fosse abitata dalla tribù Voturia. La vocazione di porto, anche se ancora a livello embrionale, fece di Ostia ben presto una città brillante e attiva. Crebbe la popolazione e fiorirono i commerci. Le prime vere mura difensive furono donate da Silla a seguito della guerra civile con Mario. Ostia, che si era schierata dalla parte sillana, fu omaggiata di una cinta muraria che circondò un’area di circa 69 ettari dei quali 50 abitati, tra alterne vicende, fino alla tarda antichità. Le testimonianze archeologiche e letterarie attestano che intorno al V secolo d.C. il declino era ormai in atto e già avviato da tempo, ma il definitivo abbandono della città si ebbe solo più tardi, nel IX secolo, quando le scorrerie dei Saraceni indussero gli abitanti di Ostia a trasferirsi definitivamente nel vicino borgo di Gregoriopoli, la moderna Ostia antica. In un arco cronologico così ampio, dobbiamo ragionevolmente supporre che furono molti i cambiamenti sociali e religiosi dei quali gli abitanti della città furono partecipi testimoni. Da piccolo villaggio, con il boom economico all’epoca di Traiano, Ostia fu al centro di traffici nazionali e internazionali. I mercanti approdavano dalle province imperiali e soprattutto dal bacino orientale del Mediterraneo, portando con sé merci ma soprattutto usanze e pratiche religiose delle loro terre d’origine. Mille lingue e mille fisionomie avremmo udito e visto camminando per le strade affollate del porto. Le molteplici religioni e culti, estranei al mondo romano, sono attestati da una ricca documentazione archeologica e epigrafica. La rapidità con la quale tali culti si diffusero tra il I e il II secolo d.C. ha indotto gli studiosi a pensare che siano stati appoggiati, o quanto meno favoriti, dall’autorità imperiale. Roma non era nuova all’accettazione di divinità non appartenenti al pantheon romano. Già dal III secolo a.C., nel corso della seconda guerra punica, era stato introdotto il culto della Magna Mater-Cibele, simboleggiato da una pietra nera, all’interno del sacro confine del pomoerium. Erano tempi difficili con Annibale che metteva a ferro e fuoco l’Italia e un aiutino dall’esterno non guastava ... Ormai era fatta: con l’introduzione di questo culto di origine frigia il mondo delle divinità romane si era ufficialmente sprovincializzato e aperto al mondo. Anche a Ostia la dea frigia è ampiamente documentata. Al suo culto era associato quello del giovane Attis, suo divino servitore. Narra la leggenda che, tra alterne vicende, la Magna Mater-Cibele, invaghita del bel giovane Attis, fece uccidere la sua amata, la ninfa Sangaride. Attis, sconvolto dal dolore, si evirò per non dover soggiacere ai piaceri della dea. Cibele impietosita, gli perdonò l’affronto, gli restituì la sua virilità e lo prese al suo servizio. Tante altre sono leggende che legano le due divinità, ma tale mutilazione sembra sia stata una caratteristica costante praticata dai sacerdoti nel corso delle cerimonie di iniziazione al culto. Altre divinità, Iside e Serapide, arrivarono dall’Egitto, precisamente da Alessandria, l’altra grande metropoli del mondo antico. E ancora, culti misterici e iniziatici dalla Grecia. Dal vicino Oriente, ma non ne parleremo perché meriterebbero un lungo capitolo a parte, arrivarono anche la religione ebraica e il cristianesimo. L’ultimo ad arrivare, ma forse il più diffuso nel mondo romano e a Ostia, fu il culto di Mitra, alla metà del II secolo d.C. Il culto di Mitra affonda le proprie radici nell’Oriente Persiano dove ebbe una notevole diffusione nel XV secolo a.C. In seguito, si estese ad est, arrivando nell’Estremo Oriente Cinese, passando per l’India e, a ovest, lungo il limes romano. Il Mitra persiano è una divinità di primo piano nel mondo iranico, è il dio della luce, del sole, il protettore della nazione ariana e il suo nome è etimologicamente riconducibile al concetto alleanza fondata su un patto tra adepti e dio: egli è il testimone per eccellenza, il garante della lealtà e dell’amicizia. La figura di Mitra rimase in auge fino alla riforma di Zoroastro che rielaborò il politeismo persiano imponendo un rigido monoteismo (628-651 a.C.). In Occidente il dio persiano si diffuse con le campagne di Alessandro Magno nel IV secolo. Alessandro, nel suo disegno di creare l’impero più vasto che occhi di uomini avessero mai visto, era arrivato addirittura in India e aveva sconfitto l’Impero persiano. E’ qui che i suoi soldati vennero a contatto con questa nuova religione. Furono ancora dei soldati, stavolta romani, che di ritorno dalle campagne in Asia, al seguito di Pompeo, introdussero il culto a Roma. Siamo intorno al 67-66 a.C. Non è un caso se il culto si sia radicato così in profondità negli eserciti: il pactum era un modo per legare tra loro i soldati e essi stessi ai propri comandanti. Tra tanti passaggi si perse la vocazione pubblica del culto. La differenza sostanziale tra il culto persiano e quello arrivato a Roma è nel numero dei fedeli ammessi al rito. In Persia fu una religione ufficiale alla quale partecipavano tutti, a Roma divenne un culto misterico (la conoscenza avveniva attraverso vari gradi di consapevolezza), fuori dai circoli ufficiali e al quale erano ammesse solo piccole comunità di adepti. La leggenda narra che Mitra, dio del cielo, nacque da una roccia, in una grotta, per salvare il mondo, portando vita e fertilità sulla terra. In seguito, Apollo inviò un corvo a Mitra ordinandogli di versare il sangue di un animale che aveva la pienezza della vita. Si trattava di un toro che viveva sulla Luna. Nel corso della lotta, sempre rappresentata su affreschi o altari, il giovane dio riuscì a uccidere l’animale. All’azione parteciparono un cane da caccia, un serpente e uno scorpione. Dal sangue versato nacque la vita vegetale, animale e tutto ciò in cui risiedano bontà e prosperità. Lo scorpione però, zitto zitto, bevve o disperse un po’ di quel sacro sangue e così nel mondo fu portato anche il male. Finita la lotta Apollo e Mitra celebrarono la vittoria con un fastoso banchetto e Mitra ascese al cielo diventando un occhio del dio del sole. Il tutto celebra una visione dualistica del mondo diviso nel Bene e nel Male, buio dell’inconsapevolezza e luce della conoscenza. Il culto è misterico, prevede cioè un’iniziazione che, per gradi successivi, accompagna il fedele alla piena consapevolezza e alla somma conoscenza. Perno del culto sono i sette gradi o passaggi ai quali l’adepto deve sottoporsi incondizionatamente. È una dottrina complessa e articolata connotata da forti richiami simbolici. A Ostia uno dei più famosi, il mitreo del Felicissimo, illustra bene tutti i passaggi e i gradi del culto nel mosaico pavimentale rimasto. Della costruzione in alzato non è rimasto nulla, ma il pavimento è davvero una miniera d’informazioni. Ogni passaggio e ogni grado sono rappresentati quasi in maniera didascalica. Fossi in voi una visitina ce la farei. Ora passiamo a descrivere i gradi di iniziazione partendo proprio dal pavimento di questo mitreo. Il primo grado era quello del corax, il corvo, sotto la protezione di Mercurio. Questa prima fase simboleggia metaforicamente la morte del neofita, il quale muore come essere impuro e rinasce come adepto del dio. All’iniziato veniva data una formula da ripetere, e i suoi peccati venivano lavati con acqua mediante il rito del “battesimo”. Colui che apparteneva a questo grado doveva portare sul viso la maschera di un corvo e nelle mani un caduceo e un boccale d’acqua. Il secondo grado era quello del nymphus, lo sposo, sotto la protezione di Venere. Il neofita non è ancora in grado di vedere la luce della verità fino a quando il velo dell’ignoranza non sia stato rimosso. In questo caso l’adepto indossava un velo giallo sul viso, giallo come quello delle spose, che al fine della cerimonia veniva rimosso; doveva rimanere casto finché non fosse passato al grado successivo. In questa fase l’iniziato era lo sposo di Mitra, si congiungeva spiritualmente al dio e il suo compito era di portare acqua alla statua e assicurare l’illuminazione al mitreo: non a caso il simbolo di questo grado è una torcia. Il grado successivo è il miles, il soldato, sotto la tutela di Marte. L’adepto deve ora inginocchiarsi (sottomissione religiosa) senza indumenti ( rinnegazione della vita precedente), bendato e con le mani legate. All’iniziato viene porta una corona sulla punta di una lancia, ma costui la rifiuta affermando che solo Mitra è la sua corona. A questo punto i cordami vengono tagliati di netto e tolte le bende dagli occhi. I simboli di questo grado sono la spada, la corona il cappello frigio e l’elmo di Marte. A questo punto si entrava di fatto nella vera e propria comunità mitraica. Il quarto grado è quello del leo, il leone, sotto la tutela di Giove. Da questo momento si accedeva a i livelli più alti e più sacri, si usciva dall’elemento dell’acqua e si entrava in quello del fuoco. Per tale motivo ai convenuti a questo livello era vietato toccare acqua che veniva sostituita dal miele. Il leone aveva due compiti: portare il cibo per il pasto rituale e sorvegliare che il fuoco dell’altare sacro non si spegnesse. Nelle celebrazioni indossava una toga rossa come il fuoco e i suoi simboli erano il fulmine e il sistro, uno strumento musicale. Il quinto grado è il perses, il persiano, sotto la protezione della Luna. Anche il perses era purificato con il miele che nell’antichità era in relazione con l’idea di fertilità, da cui l’espressione “luna di miele”. Il suo compito nei riti era di offrire frutti al dio e ai commensali sdraiati su banconi di pietra. Simbolo del persiano sono la falce, una spada e il berretto frigio. Il penultimo livello, il sesto, è l’heliodromus, il camminatore del sole, sotto la tutela del Sole. Ora il mitraico è il rappresentante del Sole/Mitra e, nel corso del banchetto rituale, si presenta vestito di rosso con una cintura gialla, i colori del sole e della fiamma della vita. I suoi attributi sono una torcia e una frusta (simbolo della quadriga solare guidata da Apollo). Il settimo grado, il più importante, è quello del pater, il padre, sotto la protezione di Saturno. Il pater è il rappresentante di Mitra in terra e come il dio, incarna la forza vitale della luce. Gli attributi sono un mantello rosso, pantaloni alla persiana ed un bastone, simbolo della dignità morale. I suoi simboli sono un berretto frigio ornato di perle, una patera (piatto rituale) e un falcetto. Il capo di tutte le comunità era detto Pater Patrum, il padre dei padri e, alla sua morte, veniva indicato con le prime due lettere di entrambe le parole: PAPA. I passaggi da un grado all’altro probabilmente avvenivano nel giorno della festa del sole tra il 21 e il 25 dicembre. In quei giorni nei mitrei veniva sacrificato un toro, il cui sangue veniva raccolto in una fossa apposita scavata vicino all’altare, la cosiddetta fossa sanguinis, che si trova in numerosi mitrei. Dunque, il culto di Mitra fu l’ultimo ad essere introdotto nel mondo romano ed ebbe un tale successo e una tale diffusione che nel III secolo della nostra era assunse quasi il ruolo di religione di stato. A Ostia antica sono 17 i mitrei conosciuti, sparsi un po’ ovunque nell’area della città, alcuni ben conservati altri molto meno. Al visitatore che si avventuri nella ricerca può capitare di passare davanti ad un mitreo e non accorgersene, se non leggendo l’indicazione. I santuari erano per lo più ricavati riutilizzando edifici preesistenti messi a disposizione dai proprietari convertiti al culto: un po’ come accadde per i primi luoghi di culto cristiani, i titula. Il ceto degli iniziati sembra essere stato quello dei medi imprenditori e mercanti ma spesso aderivano persone più umili, come i liberti o altri . Solo in un momento successivo il culto approdò ai livelli più alti della società romana, baluardo contro il cristianesimo dilagante. Il rito era segreto e l’architettura dei mitrei sembra rispondere a questa esigenza di riservatezza. L’ingresso non è mai rivolto verso la strada principale, ma vi si accede da un vicolo secondario. A volte gli edifici sono sotterranei, come quello delle Terme di Mitra o molti a Roma. La pianta è generalmente allungata con una volta a botte, a imitare la caverna in cui nacque il dio. A volte sul soffitto sono dipinte stelle o elementi che richiamano i pianeti e la vocazione cosmogonica del culto. Sui lati lunghi dei mitrei correvano due banconi di pietra che servivano ad appoggiare il cibo servito a i fedeli che qui mangiavano sdraiati. Sul lato lungo, opposto all’ingresso, nella maggioranza dei casi era situata la statua del dio o un altare con la sua rappresentazione. Ai lati dell’altare sono sempre rappresentate le figure di due giovani, i dadofori, portatori di luce, Cautes e Cautopates. Cautes è rappresentato con la fiaccola alzata a rappresentare la vita e il giorno. Cautopates ha la fiaccola abbassata e simboleggia la notte, il momento della discesa del sole e la morte. Un culto complesso dal quale erano tassativamente escluse le donne: è un mondo maschile quello che avremmo visto muoversi nei mitrei. Nel corso del IV secolo, con la liberalizzazione della religione cristiana ad opera dell’imperatore Costantino, i luoghi di culto pagani si avviarono verso il degrado e l’oblio. La sorte dei mitrei sembra però essere stata un po’ diversa. Da parte cristiana ci fu un accanimento distruttore nei confronti di questi edifici: alcuni recano delle tracce d’incendio. Le fonti cristiane parlano addirittura di odio. Perché tanto astio? I cristiani si sentivano minacciati? In effetti tra i due culti esistono numerose affinità sia rituali sia ideologiche. Entrambi sono misterici, prevedono cioè che la consapevolezza arrivi per gradi successivi; entrambi prevedono dottrine soteriologiche, cioè della salvezza del fedele. Tutti e due hanno il dualismo di fondo della contrapposizione del Bene e del Male. Le cerimonie rituali, inoltre, presentano molte analogie: battesimo, la mensa divina, l’ascesa al cielo del Cristo e di Mitra, la dexiosis (la stretta di mano). I cristiani in molte occasioni accusarono i mitraici di scimmiottare le loro cerimonie, senza pensare che, in realtà, il mitraismo era molto più antico della religione cristiana. Al contrario furono le comunità cristiane ad appropriarsi di alcuni elementi del culto ebraico. Uno fra tutti il 25 dicembre che da antica festa del sole divenne il giorno canonico della nascita di Gesù, il nuovo sole (ma solo dal III secolo). Oggi passeggiando tra le strade e le rovine di Ostia quasi nulla si percepisce dell’astio tra le due comunità e della violenza. Quel rimane è solo la bellezza e il fascino di un passato remoto che mai cesserà di incantare e stupire. |
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March 2023
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IRENE SALVATORI |
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