NEI SOTTERRANEI DI ROMA
LA BASILICA DI SAN CRISOGONO A TRASTEVERE Irene Salvatori Passeggiare per Roma è sempre una scoperta. La storia ad ogni passo ci viene incontro e, tra un resto archeologico e uno scorcio mozzafiato, camminiamo imbambolati e un po’ storditi da tanta bellezza. Roma però non è solo quella che vediamo in superficie. La Città Eterna nel corso nei secoli si è sovrapposta strato su strato. Le nuove epoche hanno coperto, in parte cancellando e in parte inglobando, le testimonianze di tempi più antichi. Ecco perché abbiamo due città: una in superficie e una nascosta, sotterranea. Un po’ ovunque, se si esce dagli itinerari di visita più famosi, si possono ammirare, sotto chiese e palazzi, resti nascosti e a volte sconosciuti. Uno di questi sotterranei poco conosciuti è nel quartiere di Trastevere, sotto la basilica di San Crisogono. Trastevere, ci dicono le fonti, fu uno dei quartieri più popolosi e commerciali di Roma antica. Sorse al di fuori delle mura urbane, e accolse una grande fetta di cittadini stranieri che sempre più arrivavano in cerca di fortuna nella capitale dell’impero. Con essi giunsero, a più riprese, anche i culti e le religioni delle loro terre di origine. Ci dicono che qui abitasse una nutrita comunità di ebrei e cristiani, ma non solo. Un catalogo di epoca costantiniana Il “De notitia et Curiosum” ci fornisce qualche dettaglio in più. Ed ecco che sappiamo che nel trans Tiberim v’erano 4.405 insulae, 16 bagni, 180 fontane pubbliche, 23 forni, 12 granai e la VII coorte dei vigili, che si assicurava che delinquenza e incendi fossero sotto controllo. Sappiamo anche che in questa zona si trovavano tre Titoli cristiani, quello di S. Maria, di S. Cecilia e di S. Crisogono. I Titoli altro non sono che case private messe a disposizione delle neonate comunità di fedeli, nel momento più cupo delle persecuzioni. Le prime riunioni di cristiani avvennero quindi in queste proprietà private, contrassegnate all’esterno da una tabella, un titulus, appunto. Nello specifico di San Crisogono, a più riprese nel corso dei restauri dell’attuale basilica, vennero rinvenute tracce dell’originario luogo di culto. Nel 1878 sotto il pavimento fu visto un capitello e una parte dell’abside. Gli scavi veri e propri iniziarono nel 1908 quando dalle botole di via di San Gallicano cominciarono gli sterramenti. Quello che ne venne fuori andò molto al di là delle aspettative degli scavatori e degli archeologi incaricati del lavoro. Furono portati subito alla luce affreschi del VIII- XI secolo e una serie di ambienti pertinenti non solo all’originale basilica precristiana, ma anche ad altri edifici addossati e poi inglobati nella stessa. Furono rinvenuti pavimenti mosaicati, pitture, sarcofagi, il tutto per un arco cronologico di almeno 7 secoli. Si vide che la basilica che era stata ricavata, verso l’inizio del IV secolo da e tra edifici del II e III secolo d.C., come mostrano interessanti strutture murarie di un edificio poi coperto da affreschi. Oggi la planimetria originale è fortemente alterata dai sostegni e dalle fondazioni della basilica attuale ma si può ben vedere come l’originario luogo di culto avesse un’unica navata terminante con un’ abside e due ambienti con la funzione di battistero e secretarium. Il lato di fondo era chiuso dalla facciata di una domus o insula che ancora si conserva. L’ambiente del battistero in origine deve essere stato una fullonica, una lavanderia come tante ce n’erano nella zona. Aggirarsi oggi nei sotterranei è come prendere un ascensore del tempo che ci porta indietro in una Roma viva e brillante di 2000 anni fa. La luce soffusa e un po’ retrò illumina le varie stanze e edifici inglobati nel tempo nella chiesa, e ci riempie gli occhi con incredibili affreschi, ancora oggi in situ, raffiguranti le storie di San Benedetto. Per un certo periodo la basilica ebbe anche funzioni cimiteriali, come quasi tutte le basiliche dell’epoca. Numerosi sono i ritrovamenti di sarcofagi in marmo o in terracotta e di lastre tombali che coprivano le sepolture a fossa del pavimento. Fu il Cardinale Giovanni da Crema che nel XII secolo fece interrare la vecchia basilica e ordinò la costruzione della nuova a sei metri più in alto dal piano di calpestio originario. La nuova chiesa non sorse esattamente sulla precedente, ma un po’ spostata verso destra. In quell’occasione venne anche alzato il campanile romanico, che oggi si può vedere, e vennero aggiunte altre due navate. L’aspetto attuale della chiesa si deve però al Cardinale Scipione Borghese che, tra il 1620-26, procedette al restauro barocco della facciata e di parte dell’interno. Oggi chi entra viene acconto dallo splendore dei pavimenti cosmateschi e da tavole che portano nomi da far girar la testa: Pietro Cavalli, al quale sono da attribuire alcuni dipinti del catino absidale, oggi purtroppo scomparsi, ma rimane ancora una tavola al centro del tamburo. Il Cavalier D’Arpino, Guidotti, Bracci e Bernini che disegnò la Cappella del Sacramento. Un tesoro la basilica di San Crisogono… fossi in voi una visitina ce la farei.
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La congiura di Caligola
Il percorso, i luoghi… e qualche dubbio Irene Salvatori E’ il 24 gennaio. Caligola ha appena fatto un sacrificio al Nume di Augusto, presso il vestibolo della casa del suo nobile avo (1), nonché primo Imperatore. È una mattina fredda ma il cielo è cristallino. Un giorno sacro. Un giorno di festa. Quel giorno si celebravano i Ludi Palatini, presso il tempio della Magna Mater. Caligola presiede ai giochi ma all’ora di pranzo decide di fare una pausa e tornare nella dimora imperiale. Con lui s’incamminano Claudio e il suo seguito. Dalle fonti sembra che il piccolo gruppo preceda l’Imperatore. Entrati nel palazzo, Claudio e il seguito percorsero la strada più diretta, mentre Caligola piegò verso una scorciatoia angusta, solo, senza la scorta dei fedeli Germani. Sembra che l’Imperatore si sia attardato ad ascoltare un gruppo di fanciulli, di alta nobiltà greca, che stavano facendo delle prove per l’esibizione del pomeriggio. Là Caligola fu raggiunto da alcuni uomini, tra questi Cherea e Sabino, che circondarono e uccisero l’Imperatore. Il corpo fu poi portato nella Domus Gaii e là, davanti ad esso, furono trucidate anche la moglie e la figlia dell’Imperatore, con ferocia inaudita. I congiurati fuggirono dal Clivio della Vittoria e da là si dispersero. Oggi visitando il Palatino si possono vedere o almeno ricostruire idealmente i due percorsi di Claudio e Caligola. Recenti scavi hanno portato alla luce, sotto gli Horti Farnesiani, alcuni ambienti, che sembrano essere appartenuti a quell’area in cui fu trucidato Caligola. Molto suggestiva è anche la veduta del Clivio della Vittoria. Del dramma e della violenza oggi non resta più nulla. Quel che rimane è la suggestione di angoli stupendi e una veduta da mozzare il fiato. In particolare nel Clivo della Vittoria sembra di tornare indietro di 2000 anni. Eppure la Storia, con la maiuscola, ad ogni passo ci viene incontro. Caligola è uno dei personaggi maledetti della storia di Roma, appartenuto all’altrettanto dannata dinastia giulio-claudia. Senza voler difendere nessuno a tutti i costi, vorrei dire però che leggendo le fonti, ogni qual volta che un personaggio si è posto come contraddittorio dello status quo vigente è stato bollato come malfattore, pazzo e sovversivo. Da Catilina in poi, passando per i giulio-claudi ad arrivare a Domiziano e Commodo, le fonti, parlando di queste figure controverse e condannate alla damnatio memoriae, sembra usino sempre uno schema ben preciso, a volte contraddicendosi anche all’interno dello stesso testo. Perché? La storia la scrive chi vince e certo per un periodo così lontano non è facile recuperare una realtà oggettiva dei fatti. Ma oggi gli storici hanno la volontà di approfondire, di leggere tra le righe e di analizzare non solo i personaggi così come ci sono stati tramandati, ma inserendoli in un più vasto programma di ricerca socio-economico. Per cui Tiberio non è più il vecchio lascivo che da Capri si diletta in festini e bagordi, ma un grande generale e un amante delle lettere, con una pesante eredità: l’Impero. Forse non avrebbe voluto essere imperatore e certo il suo limite fu di non aver trovato il modo di comunicare con le masse. Caligola il pazzo. O forse, da Caligola comincia a cadere la falsa ipocrisia dell’Imperatore ossequiente. Se Augusto, un grande baro, aveva tenuto aperto, anche solo apparentemente, un dialogo con il Senato, anche solo a livello formale e non di sostanza, con Caligola tutto ciò viene interrotto, e il giovane Imperatore, non accettando più le regole del gioco, metterà i maggiorenti di fronte alla loro stessa ipocrisia e contraddittorietà. Claudio. Leggendo le lettere di Augusto a Livia, dovremmo immaginarlo come uno stolto balbuziente e zoppo, imbarazzante quasi e molto lontano dal machismo romano. Forse, ma al momento della sua inaspettata ascesa al trono i Romani si trovarono di fronte a uno degli uomini più colti dell’Impero. Nerone, oh Nerone! Oggi si sta finalmente sdoganando lo stereotipo del Nerone incendiario e sanguinario. Una politica attenta e vicina al sociale piuttosto. Il fatto è che chi scrisse apparteneva a quella classe senatoria tanto osteggiata dagli imperatori, oppure riportava fatti accaduti 100 anni prima. La verifica della verità vera di un evento è difficile anche per anni a noi più vicini per cui, rimandando ad una trattazione più ampia, quello che per ora propongo è il legittimo dubbio. Troppo, tutto e tutto insieme: questo è il leit motiv con cui si procede alla dannazione di un personaggio. Affidabili o meno, le fonti storiche sono però sempre incredibilmente affascinanti da leggere, ci riportano a un tempo lontano, del quale oggi possiamo ammirare, stupiti, ammirati e increduli, i resti. La morte di Caligola, Svetonio, 58,59 “Il nono giorno prima delle calende di febbraio, verso l’ora settima, era incerto se recarsi a pranzo, sentendosi lo stomaco ancora appesantito per quando aveva mangiato il giorno precedente; alla fine si alzò, ma solo in seguito alle pressioni dei suoi amici. In una galleria che doveva attraversare, alcuni ragazzi di nobile famiglia, che aveva fatto venire dall’Asia perchè si esibissero sulla scena, stavano facendo le prove per lo spettacolo; si fermò un momento a guardarli, e, se il loro capo non lo avesse avvertito che avevano freddo, avrebbe voluto tornare indietro e far rappresentare lo spettacolo. Da questo momento vi sono due versioni diverse: alcuni dicono che, mentre stava parlando coi ragazzi, Cherea lo ferì gravemente alla nuca, con un colpo di taglio della spada, esclamando “colpisci!”, e che quindi il tribuno Cornelio Sabino, l’altro congiurato, lo trafisse al petto. Secondo altri, invece, Sabino, dopo aver fatto allontanare la folla da alcuni centurioni al corrente della congiura, gli aveva chiesto, secondo l’uso militare, la parola d’ordine, e quando Gaio aveva risposto ”Giove!”, Cherea gridando “eccolo!” gli aveva fracassato la mascella mentre si voltava. Caduto a terra con le membra contratte continuava a gridare “sono vivo”, gli altri lo ferirono con trenta ferite...visse 29 anni e fu imperatore per tre anni, dieci mesi e otto giorni. Il suo cadavere, trasportato di nascosto nei giardini di Lamia, fu posto sopra un rogo improvvisato e poi sepolto, semi combusto, sotto un leggero strato di zolle erbose. Le sorelle, quando tornarono dall’esilio, lo disseppellirono, lo cremarono e gli resero onoranze funebri... Assieme a lui fu uccisa sua moglie Cesonia, trafitta dalla spada di un centurione, e sua figlia, sfracellata contro una parete.” (1) Il bis nonno in realtà. Caligola è figlio di Germanico e Agrippina Maggiore, a sua volta figlia di Giulia, figlia di Augusto. L'imperatore ripudìò Giulia ma reintegrò i nipoti per i quali, giuridicamente, fu un "prozio", anche se nonno a livello parentelare. CARAVAGGIO. TORMENTO, ERESIA, GENIO
SAN LUIGI DEI FRANCESI Irene Salvatori Un’altalena emozionale. Montagne russe che ti portano alle vette della meraviglia e ti trascinano sempre più giù, nel baratro dell’inquietudine. È così che ci si sente di fronte ai capolavori di Caravaggio: le gambe si fanno molli e il mondo intorno sembra svanire, tanto il nostro essere è coinvolto e travolto dalla bellezza e dalla violenza delle tele del pittore. Un unicum, imitato, osteggiato ma mai raggiunto. Di Caravaggio ne verrà raccolto lo stile ma non l’essenza più profonda, di chi ha veramente vissuto il mondo che dipinge. Michele - è così, col suo nome, che lo chiameremo - nasce a Milano il 29 settembre, il giorno appunto di San Michele Arcangelo, nel 1571. È la grande epoca di Shakespeare, di Giordano Bruno, di Galileo e della Controriforma. Sono anni turbolenti, di forti tensioni politiche e religiose. L’Inquisizione è più che mai all’opera, nel tentativo di fermare, o quanto meno ostacolare, tutto ciò che metta in pericolo l’ortodossia del mondo cattolico. In questi anni difficili a Milano c’è la peste, e la famiglia di Michele si trasferisce nel piccolo borgo di Caravaggio, feudo della famiglia Colonna. Poche e frammentarie sono le notizie della giovinezza del ragazzo. Dagli archivi e dai suoi biografi ufficiali sappiamo che entrò a bottega da Simone Peterzano, di scarso valore, ma che a suo beneficio aveva l’aver appreso l’arte della pittura e della luce studiando con il grande Tiziano, a Venezia. La formazione di Michele si muove quindi tra la vecchia maniera del mondo lombardo e l’innovativa arte della luce e della pittura, senza disegno preparatorio (Giorgione) del mondo veneziano. Il ragazzo è dotato, ma la grande occasione per un pittore è a Roma, la città delle mille possibilità, un cantiere a cielo aperto. Michele, nel 1592, fa i bagagli e tenta l’avventura venendo nella Città Eterna, sembra anche per allontanarsi da un’accusa presunta di omicidio in quel di Milano. A Roma gli inizi sono difficili, un giovane di grandi speranze, ma senza i contatti giusti, di quelli che contano, un pittore tra i tanti. “estremamente bisognoso et ignudo,… senza recapito e senza provedimento, …senza denari” (Bellori, Mancini, Baglione). Secondo Mancini, uno dei suoi biografi, andò a vivere da monsignor Pandolfo Pucci, detto monsignor Insalata, per la dieta ferrea e povera che imponeva, presso il quale Michele rimase pochissimo tempo. Nel frattempo, nell’Urbe spopolavano i lavori del quasi coetaneo Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, pittore prediletto di papa Clemente VIII. Michele, in quel periodo, fa conoscenza e s’immerge nel mondo oscuro dei miserabili che popolano le vie di Roma e, tra ladri, attaccabrighe e prostitute, il giovanotto si muove con la destrezza e l’attitudine di un pesce in una boccia. Già ora comincia quel via vai, che sarà la costante della sua vita, nelle gendarmerie e nelle patrie galere romane. Alla fine però riesce a entrare come aiutante nell’acclamata bottega del Cesari. Viene messo a dipingere fiori e frutta, ma in privato cominciano a circolare altre tele del tutto diverse, scene di vita quotidiana: “Fanciullo che monda un pomo”, il “Bacchino malato”, “Fanciullo con canestro di frutta”, “La buona ventura” e “I bari”. Sono quadri di grande freschezza e immediatezza narrativa, che non sfuggirono ai vari talent scout che si aggiravano tra la zona di piazza Navona, via della Scrofa e del Pantheon. Questi primi lavori, così innovativi e vivaci, giungono all’attenzione del Cardinale Del Monte, di origine toscana, che alloggiava a Palazzo Madama e, appassionato di arti e scienza, stava radunando intorno a sé i maggiori intellettuali dell’epoca. Tra questi compare Galileo, che fece dono al cardinale di una copia del suo Sidereus nuncius e di un cannocchiale. Un mondo brillante nel quale venne accolto anche Michele. Proprio alle spalle di Palazzo Madama, intanto, era già cominciata da tempo, in San Luigi dei Francesi, quell’interminabile vicenda della cappella Contarelli che è la protagonista della nostra storia. Matieu Cointrel, italianizzato in Matteo Contarelli, nel 1565 aveva comprato una cappella nella chiesa dei Francesi, precisamente l’ultima a sinistra, e aveva dato disposizione a Virginio Crescenzi, suo esecutore testamentario, di far decorare volte e pareti con affreschi e statue del santo di cui portava il nome, Matteo. Per l’altare venne stipulato un contratto per una statua di marmo, a altezza maggiore del vero, con lo scultore fiammingo Cobaert, per gli affreschi della volta e delle pareti laterali, nel 1591, venne incaricato Giuseppe Cesari. Quest’ultimo fu pagato nel 1593 per gli affreschi della volta, ma del resto dei lavori non si vedeva neanche l’ombra. Nel frattempo era morto sia Contarelli che Crescenzi, al quale era subentrato il figlio Giacomo. Il problema di fondo era questo: Cesari era ormai impegnatissimo con papa Clemente VIII per vari lavori tra i quali la decorazione delle famose stanze del Campidoglio, e Cobaert era più che altro specializzato in opere di piccole dimensioni e non in marmo. Il marmo è un materiale ostico da lavorare… ne sanno qualcosa Michelangelo e Bernini, per citare i più famosi. Siamo nel 1596 e la congregazione dei Francesi, con Francesco Contarelli (nipote di Matteo), come capo fila, si arma di coraggio e scrive una lagnanza direttamente al papa dicendo che, con il tempo che era trascorso, si sarebbe potuta costruire da zero una chiesa! L’anno successivo ancora nulla. Siamo nel 1598. Sono passati più di trent’anni da quando Contarelli aveva acquistato la cappella e ci si apprestava all’Anno Santo. La situazione è incresciosa e ecco intervenire il cardinal Del Monte. Il cardinale conosce i Crescenzi e la situazione ormai da macchietta della cappella. È l’uomo del destino, il tipo giusto per dipanare una tale ingarbugliata matassa. Nel luglio del 1598 Michele, convocato dalla congrega, firma il contratto per due tele, con un anticipo di cinquanta scudi. È fatta. È l’occasione giusta. “Per opera del suo cardinale hebbe in S. Luigi de’ Francesi la cappella de’ Contarelli” (Baglione) I tempi sono ristretti e il pittore, fino a quel momento, non si è mai cimentato in opere di tali dimensioni, tanto meno negli affreschi. Ma si raggiunge il compromesso che alle pareti vengano collocate delle tele a olio. Caravaggio si mise al lavoro che consegnò con sei mesi di ritardo… ma ciò che fece rese San Luigi dei Francesi e il suo nome immortali…per sempre. CINQUE PERSONE INTORNO A UN TAVOLO: tre ragazzi appariscenti, uno più in là negli anni e uno anziano con gli occhiali sul naso. La scena è ambigua, ambientata in uno spazio irriconoscibile con una finestra in alto. In una stanza o in un vicolo, tra interno e esterno. I ragazzi sono vestiti riccamente e sul tavolo ci sono dei soldi, di non si sa bene quale sia la provenienza, forse il bottino di una rapina, forse un incasso. Il tempo sembra essere sospeso. A guardarli sembrano i bravi del Manzoni o i ragazzi di vita di Pasolini. Un mondo annoiato e quotidiano. All’estremità del tavolo uno dei ragazzi sta prendendo la spada all’arrivo di due personaggi. Uno è di mezza età e con la barba, l’altro è un giovane uomo, bellissimo, scalzo, con il braccio teso verso qualcuno del gruppo. Appena fatto un gesto con la mano, il giovane uomo si sta già voltando per uscire. Dietro e sopra le teste dei due un fascio di luce di non sicura provenienza. Dalla parte opposta del tavolo l’uomo con gli occhiali indica con un dito se stesso, sembra dire “proprio io?”, ma il ragazzo che gli sta accanto non si accorge di nulla. Tutto è congelato, l’attimo è immobile. Eppure in questa fissità c’è un percorso circolare che anima la situazione: Il gesto del nuovo arrivato (che richiama l’Adamo di Michelangelo), la domanda muta dell’uomo con gli occhiali e la luce che illumina la scena. È in questo modo che Michele diede vita alla Vocazione di Matteo. Le misure sono impressionanti: tre metri e mezzo di lunghezza per tre e venti di altezza. Ma a colpire i contemporanei fu qualcosa di assolutamente nuovo presente nel quadro. Cinque persone, come tante ne avreste viste in giro, si trovavano su una tela sacra. L’anziano con gli occhiali è il pubblicano Matteo Levi che, alla chiamata di Cristo, diviene Matteo l’apostolo. E il Cristo? Il Salvatore è il giovane bellissimo la cui identità si riconosce solo dalla leggera aureola sul capo. L’uomo, che avvolto da una tunica gli sta davanti è l’apostolo Pietro. Il tutto non è solo una novità assoluta ma quasi in odor d’eresia. Due anni prima era morto il cardinal Paleotti, che avrebbe voluto creare un indice delle immagini proibite, a modello di quello che metteva al bando letture non ortodosse e pericolose per la fede. Con la morte di Paleotti era morto anche il suo progetto. Nulla di edificante traspare dal quadro, nessun intento moralista o educativo nei confronti di chi guarda. Eppure tutto è pacatezza. Le immagini emergono dal buio nella loro semplice grandiosità. Immobilità e azione si fondono in un equilibrio superbo. L’introduzione di Pietro fu un colpo di genio. Siamo in un epoca di forti tensioni politiche tra filo Spagnoli e filo Francesi. Attualizzando la scena, come sarebbe stato vestito il Cristo? Alla francese o alla spagnola? Nessuna delle due e oltre entrambe. Non solo, ma a differenza di tante altre tele in cui, tanto più si fa dinamica l’azione, tanto più l’atteggiamento del Cristo è sempre statico, qui invece Gesù è l’unico ad essere in movimento. Il tutto fu di grande impatto. Michele dipinse sempre tenendo conto della collocazione e della poca illuminazione delle chiese. Le figure emergono dalle tenebre della fioca luce delle candele del ‘600, con un effetto teatrale senza pari. Le persone che accorsero a vedere la vocazione, ripresesi dalla shock iniziale, erano però destinate ad averne un altro, voltando la testa sulla parete opposta. MATTEO E’ IL SANTO PRIVILEGIATO DELLA CONTRORIFORMA, perché esempio di come la condizione dell’uomo possa cambiare in pochi istanti con la chiamata alla salvezza di Cristo. Sono note varie versioni del martirio del santo, ma Contarelli scelse la versione della morte con la spada. Le indicazioni erano precise: “un luogo lungo et largo quasi in forma di tempio et nella parte di sopra un altare in isola elevato con tre quattro cinque più o meno gradi: ove San Matteo celebrando la Messa vestito in quel modo che poi darà da intendere sia ammazzato da una mano di soldati et si crede sarà più secondo l’arte farlo nell’atto dell’ammazzare però che habbi ricevuta qualche ferita et già sia cascato o in atto di cadere ma non ancor morto et nel detto tempo sia moltitudine d’huomini et donne giovani vecchi putti et d’ogni altra sorte in oratione… et per il più spaventati dal caso mostrando in altri sdegno in altri compassione”. Michele aveva accettato un sfida in cui le figure erano di un numero da lui mai dipinto prima e un’azione particolarmente complessa. Dalle radiografie del Martirio di San Matteo emergono ripensamenti e cancellature, una sorta di crisi nervosa pittorica. Inizialmente sembra che il nostro pittore abbia rispettato le indicazioni del committente, ma il tutto non doveva funzionare perché, in un processo di sintesi e sottrazione, si vede bene come le figure diminuiscano di numero. Anche i piani narrativi all’interno del tempio crearono problemi. Il tempio, quello era il vero problema, la scatola entro cui si muovevano i personaggi. Ecco allora sparire il contenitore, gli astanti in preghiera, le donne e l’ambientazione. Percorrendo la navata centrale della Chiesa dei Francesi, nella penombra del ‘600, se avessimo voltato lo sguardo a sinistra quello che avremmo visto sarebbe stato… un omicidio! Un giovane nudo, di grande bellezza che, illuminato dalla luce, sta per uccidere a colpi di spada un vecchietto smarrito. È l’assassino il cuore della scena, non più il santo. Intorno un’atmosfera da bagno turco con una vasca, ciò che rimane della fonte battesimale, dalla quale esce del vapore. Un bambino fugge terrorizzato e intorno un gruppo di uomini, alcuni semi nudi (in primo piano, i convertiti) che assistono curiosi e inquieti alla scena. In lontananza l’autoritratto di Caravaggio. Se non fosse per il sollecito angelo, che da sopra una nuvola porge la palma del martirio a Matteo, potrebbe essere la descrizione di un delitto efferato in un vicolo. La luce tiene unito il tutto, legando insieme le singole composizioni a se stanti e irreali. Vittima e carnefice si guardano in un attimo che diviene infinito. È barocco… e funziona. Con la fama giunsero anche le critiche in particolare dei pittori e tra questi Zuccari, fondatore dell’Accademia di San Luca. Il martirio lasciava perplessi per la mancanza di senso del sostegno. Le figure sembrano non appoggiare su alcuna superficie e, certo, la scarsa illuminazione doveva rendere difficile se non impossibile leggere i dettagli. Ma fu un successo strepitoso che, al di là delle invidie e delle malelingue, consacrò Michele alla fama. L’Anno Santo giunse e passò ma ancora l’altare della cappella non aveva la sua statua. Nel 1602 finalmente Cobaert annunciò di aver terminato l’opera e la consegnò alla congrega dei Francesi. “Li Contarelli, quando il videro, pensando che fusse opera divina, o miracolosa, e ritrovandola una seccaggine, no’l vollero nella loro cappella di San Luigi…la statua del santo, posta sull’altare, non è piaciuta al nuovo rettore Francesco Contarelli che, d’accordo con tutta la congregazione, desidera porre in suo luogo un dipinto con San Matteo”. Il 7 febbraio Michele firma un nuovo contratto per la consegna di un Matteo e l’Angelo entro la Pentecoste. Non ci furono ritardi ma l’opera fu respinta (e prontamente acquistata dai Giustiniani che intanto erano diventati collezionisti di Caravaggio). Quasi comica, al limite del ridicolo venne considerata la prima versione del quadro. Perché? Abbiamo già detto quanto fosse importante la figura di Matteo come santo edificante per la Controriforma. Ora quel che si vedeva era un contadinotto impacciato al quale un giovane angelo, di sensuale e ambigua bellezza, si avvinghiava insegnandogli le sacre scritture. Oltre a ciò, Matteo aveva le gambe accavallate e un piede sudicio, in bella mostra, sarebbe arrivato all’altezza della faccia del prete che avrebbe officiato la Messa nella Cappella. Il quadro entrò e uscì. In quei due anni Michele aveva raggiunto grande notorietà e l’aveva passata liscia con la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, con quelle scandalose terga del cavallo in primo piano, nella Conversione di Saulo. Stavolta le cose andarono male, e al nostro pittore non rimase che fare una nuova versione più ortodossa. Il nuovo lavoro, quello che oggi possiamo ammirare, è magnifico ma composto e forse un po’ freddo. Il modello, che si prestò a interpretare Matteo, è lo stesso che vediamo nella crocifissione di San Pietro nella cappella Cerasi e nel San Girolamo alla Galleria Borghese. L’angelo non è più un fanciullo dall’avvenente sensualità, ma è un giovane con un paio di ali scure che sembra piombare su Matteo con fare minaccioso. Il Santo sembra quasi spaventato, ma ha un magnifico drappo rosso che distoglie la mente dalla natura un po’ ansiogena della scena. Anche qui la luce fa emergere dal buio i personaggi. Luce e ombra. Vita e morte. Luce e ombra sono di una modernità e di una forza senza pari in tutte le opere di Michele. Che poi a guardar bene non è tanto la luce, ma la tenebra il vero oggetto di studio. Una tenebra quasi assoluta che avvolge figure e azioni, quasi a rammentare, a chi osserva, che il male celato nel buio è sempre in agguato e solo la luce della salvezza e della conoscenza possono dissipare le ombre che attanagliano l’uomo e il mondo. |
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March 2023
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