Idi di Marzo. E' l'alba di una mattina fresca di quasi primavera e una coppia si sveglia in una domus. Entrambi hanno fatto sonni agitati. La donna ha sognato il marito ucciso tra le sue braccia, l'uomo di elevarsi al cielo e stringere le mani a Giove. Lei è Calpurnia, lui è Cesare e sarà l'ultimo risveglio insieme. Di ragioni per non uscire di casa ce n’erano molte. Prodigi a go go e predizioni tutt’altro che rassicuranti, come quella dell’aruspice Spurinna che aveva invitato Cesare a guardarsi da un periodo negativo che si sarebbe concluso proprio alle Idi di Marzo. Ma tutti noi abbiamo un appuntamento col destino che inesorabile ci sovrasta e ci schernisce. Svetonio ci racconta che la sera prima, al ritorno dalla cena in casa di Emilio Lepido, Cesare era stanco e spossato e così il giorno dopo. Aveva avuto un leggero attacco epilettico notturno? Non lo sapremo mai. Fatto sta che Cesare quella mattina è intenzionato a non uscire di casa se non per piccole incombenze e manda a chiamare Antonio per avvisare il Senato che la seduta è rimandata. Tra queste incombenze l’abituale sacrificio a Giove a casa di Gneo Domizio Calvino. È qui che avvenne il famoso scambio di battute con Cesare che fa lo spaccone vedendo Spurinna:” Le Idi sono arrivate e non mi è successo nulla” e quello di rimando :” si ma non sono ancora passate”. Ma la congiura deve avere la sua vittima. Ad una certa ora si presenta nella domus di Cesare Decimo. Per il buon esito del tutto è necessario che ogni cosa avvenga secondo i piani e Decimo è là per assicurarsi che Cesare vada alla Curia. Dopo un breve scambio di battute sulle responsabilità di Cesare nei confronti dei Senatori e una presa in giro sui sogni di Capurnia, il dittatore si convince: la seduta sarà rimandata ma sarà egli stesso a dirlo agli Ottimati. Decimo lo PRENDE PER MANO e insieme escono di casa. Sono più o meno le 11.00. Quel giorno Roma non è traboccante di persone come al solito. Molti cittadini sono al I miglio della via Flaminia a festeggiare la festa di Anna Perenna, una bella scampagnata tra risate e relax. Quella mattina, sul presto anche i congiurati, tra i quali Bruto e Cassio, escono di casa, ma con altra consapevolezza. Quel giorno poi per Cassio è particolarmente importante, il figlio avrebbe indossato la toga virile e sarebbe entrato nel mondo degli adulti. Cesare percorse il tragitto che lo separava dalla Curia di Pompeo in lettiga fermato a più riprese da questuanti e gente del popolo. Tra queste persone le fonti ne ricordano una in particolare, un certo Artemidoro di Cnido che, facendosi largo tra la folla, consegnò a Cesare un biglietto con il consiglio di leggerlo urgentemente. Artemidoro era un insegnante di filosofia della cerchia di Bruto e quel giorno tentò in extremis di avvertire Cesare della congiura. Ma nulla, Cesare non riuscì a leggere il biglietto, ogni volta venne distolto da qualcosa. Si dice che entrò in Senato stringendolo ancora in mano. Quel giorno chi fosse andato alla Curia di Pompeo avrebbe visto una gran numero di gladiatori gironzolare tra i portici. Ve li ricordate i gladiatori di Decimo? Sono proprio loro, con la scusa di recuperarne uno fuggito, sono là a presidiare la zona. Prima dell’arrivo di Cesare tutto nella Curia procede come un giorno qualunque. Bruto e Cassio assolvono alle loro funzioni di pretori. Ma la tranquillità è solo apparente. Sotto la toga una ventina di senatori nascondono un pugium, un pugnale, e l’aria è palpabilmente tesa. Un Senatore, Popilio Lenate, avvicina Bruto e Cassio esortandoli a fare presto. La notizia dunque è trapelata.. come se non bastasse a Bruto arriva la notizia che a casa la moglie Porcia è morta. In realtà ha solo avuto un mancamento. La donna, nervosa e ansiogena, è dalla mattina che manda servi al Senato per avere notizie. Quella stessa donna che per dimostrare al marito quanto fosse affidabile, pochi giorni prima si era affondata un coltello nella coscia, dando prova di virile coraggio. Secondo me Bruto dalla notte precedente passata insonne, non era in ansia solo per la congiura ma per la moglie psicopatica! Vabbè, un exemplum virtutis muliebre e la chiudiamo qui. Alla notizia della morte -presunta- della moglie, Bruto non abbandona il suo posto, ormai si è spinto troppo in là. Cesare arriva in Senato, prende di nuovo gli auspici e ancora una volta sono sfavorevoli. E’ mezzogiorno quando varca la porta della Curia e subito gli si fa dappresso Popilio Lenate. I congiurati temono sia tutto perduto, ma Popilio si allontana tranquillo. Tutto a posto. Cesare ignora. Quel giorno nella Curia erano presenti circa 200 senatori, ma ne mancano due che conosciamo bene: Cicerone, che prudentemente o inconsapevolmente quel giorno non si presentò in aula e Antonio, tenuto fuori da Trebonio con qualche scusa. Prima ancora di sedersi sullo scranno Cesare è attorniato da un gruppo di senatori.
“Mentre si sedeva, i congiurati lo circondarono come per rendergli onore e subito Cimbro Tillio, assuntosi l’incarico dell’iniziativa, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore: Cesare però non volle ascoltarlo e rimandò la cosa ad altro momento. Allora Tillio gli afferrò la toga da entrambe le spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è davvero violenza!”, uno dei due Casca lo ferì da dietro, poco sotto la gola. Cesare, preso il braccio di Casca, lo trafisse con lo stilo e, mentre tentava di buttarsi in avanti, fu fermato da un’altra ferita. Accortosi che era assalito da tutte le parti con i pugnali sguainati, avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra tirò l’orlo fino ai piedi, per morire più decorosamente, coperta anche la parte inferiore del corpo. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, sussurrato dopo il primo colpo; ma secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che gli si scagliava contro: “Anche tu, figlio?”. Esanime, rimase lì per un po’, mentre tutti fuggivano, poi, caricato su una lettiga, con un braccio penzoloni, fu portato a casa da tre servi. Nessuna di tante ferite, come sosteneva il medico Antistio, fu letale tranne quella ricevuta per seconda al petto” Svetonio, Vita di Cesare, 82 “Per primo Casca lo colpì al collo con un colpo di pugnale né mortale né profondo; era turbato, com’è naturale all’inizio di un’impresa tanto che Cesare si voltò, afferrò il pugnale e lo tenne fermo. I due gridarono insieme: il ferito in latino: “Maledettissimo Casca, che fai?”, il feritore, in greco, al fratello: “Fratello, aiutami!”. Tale fu l’inizio del delitto e chi era all’oscuro di tutto fu colto da stupore e terrore per ciò che stava accadendo, senza osar né fuggire, né difendere Cesare, e neppure gridare. Ma poiché tutti coloro che avevano deciso di ucciderlo mostravano la spada sguainata, Cesare, circondato da ogni parte e incontrando, ovunque volgesse lo sguardo, pugnalate e armi puntate contro il viso e gli occhi, inseguito come una bestia, s’impigliava nelle mani di tutti: bisognava infatti che tutti quanti partecipassero al sacrificio e gustassero il sangue. Perciò anche Bruto gli vibrò un colpo all’inguine. Alcuni sostengono che, mentre Cesare dagli altri si difese trascinando il suo corpo qua e là ed urlando, quando vide che Bruto aveva impugnato il pugnale, si tirò la veste sul viso e si accasciò, o per caso o spinto dagli assassini, presso la base della statua di Pompeo. E il sangue la inondò, tanto che sembrò che Pompeo stesso guidasse la vendetta contro il nemico, disteso ai piedi e in preda agli spasimi per il gran numero delle ferite ricevute” Plutarco, Vita di Cesare, 66 “Mentre dunque Trebonio parlava con Antonio, gli altri tutti insieme circondarono Cesare, che era facilmente avvicinabile e affabile come chiunque e alcuni conversavano con lui, mentre altri agivano come se dovessero presentargli delle richieste, così che la sua mente non potesse affatto nutrire sospetti. Quando giunse il momento atteso, uno di loro gli si avvicinò come per ringraziarlo di qualche favore o altro e scostò la toga dalla spalla, dando così il segnale convenuto dai cospiratori. Allora lo attaccarono da molte parti al contempo e lo ferirono a morte, cosicché in ragione del loro numero Cesare non potesse dire o fare nulla se non coprirsi il viso. Fu ucciso dalle molte ferite. Questo è il racconto più fedele all’evento, benché alcuni abbiano aggiunto che a Bruto, che lo colpiva con forza, egli disse: “Anche tu, figlio mio” Cassio Dione, Storia Romana, 44, 19, 3-5 “I congiurati lasciarono Trebonio a intrattenere Antonio sulla porta: gli altri, quando Cesare si fu seduto per primo, gli si fecero intorno come degli amici, ma coi pugnali sotto il mantello. Allora Tillio Cimbro, uno di loro, piantatosi davanti, implorava il ritorno del fratello. Cesare rimandava la grazia, anzi la negava del tutto. Allora Cimbro, fingendo di supplicarlo, gli afferrò la porpora; ma nel farlo la avvolse e tirò per denudargli il collo, gridando allora: “Perché tardate ancora, amici!”. Quindi Casca, sovrastandogli il capo, lo pugnalò alla gola; ma mancò il colpo, ferendo il petto. Cesare liberò la sua veste da Cimbro, afferrò la mano a Casca e, balzato giù dallo scranno, si girò verso questi tirandolo con gran forza: ma nel girarsi protese il fianco, dove un altro lo trafisse. Intanto con gli stili in pugno Cassio lo colpì alla faccia, Bruto a un femore, Bucoliano alla schiena. Cesare si voltava verso ciascuno fremendo e stridendo come un animale, ma dopo il colpo di Bruto, ormai perse le speranze nella vita, si avvolse il capo nel mantello e cadde in nobile modo ai piedi della statua di Pompeo. Gli assalitori si accanirono su di lui, quando cadde, assestando fino a ventitré colpi, tanto che molti, per l’ansia di ferirlo, ferirono a vicenda se stessi e gli altri” Appiano, Guerre Civili, II, 117 “Al suo ingresso, il senato si alzò in onore alla sua posizione. I congiurati gli stavano accanto. Il più vicino era Tillio Cimbro, il cui fratello era stato esiliato da Cesare. Col pretesto di un’umile rechiesta a favore del fratello, Cimbro lo avvicinò e gli afferrò il mantello della toga, mostrando di agire con troppo ardore per uno che supplica e volendo impedirgli di alzarsi e usare le mani se lo voleva. Cesare si irritò molto, ma gli uomini rimasero fermi nel proposito e tutti subito sguainarono i pugnali e lo assalirono. Per primo Servilio Casca lo colpì con la punta della lama alla spalla sinistra un po’ sopra la clavicola. Nella tensione, però, mancò il punto da colpire. Cesare allora si alzò per proteggersi e nel trambusto Casca gridò in greco al fratello, che lo sentì e conficcò la spada nel costato. Intanto, Cassio lo ferì al viso e Decimo Bruto lo trafisse al fianco. Mentre Cassio Longino tentava di assestargli un altro colpo, lo mancò e colpì Marco Bruto alla mano. Anche Minucio assalì Cesare, ma prese Rubrio alla coscia. Erano come uomini che combattevano contro di lui. Per le numerose ferite, egli cadde ai piedi della statua di Pompeo. Ognuno voleva mostrare di aver preso parte nell’assassinio e non ci fu nessuno che mancò il suo corpo mentre giaceva a terra, finché quello, ferito trentacinque volte, esalò il suo ultimo respiro.” Nicola Damasceno, Vita di Augusto, 24. Dunque, a parte Nicola Damasceno, le fonti sono concordi nel riportare il numero di 23 coltellate. Cesare non fu semplicemente ucciso, fu scannato, e il fatto che tutto sembri avvolto da una apparente sembianza di rituale non ne cambia la sostanza. Il corpo venne lasciato là, abbandonato. Grave errore, perchè con quel corpo e da quel corpo Antonio, il giorno del funerale, il 20 marzo, trarrà il maggior profitto: portare i romani lontano dalla causa dei cesaricidi. Il giorno del funerale il popolo romano sfogò tutta la rabbia e la disperazione. Il corpo avrebbe dovuto essere cremato in Campo Marzio, ma la folla, presa dall’emozione, lo bruciò là dove oggi sorge il tempio del Divo Giulio. Manca ancora il personaggio principale: Ottaviano, che ancora si trova ad Apollonia a perfezionare la sua educazione militare... ma sta arrivando. Il dopo congiura? Cicerone definì i congiurati “cuor di leone e cervello di bambini”. In un primo momento i congiurati esaltati si ritirarono sul Campidoglio e da lì scesero Bruto, Cassio e Cinna ad arringare i Romani e a spiegare le motivazioni. Il popolo è smarrito, non capisce, è frastornato. Inizialmente gli assassini non saranno visti tali, o non fino in fondo, ma la macchina si sta mettendo in moto. Già Antonio si vede a capo della fazione cesariana. Ottaviano sta arrivando, per reclamare la sua eredità - i due terzi del patrimonio di Cesare- e per vendicare quello che ora sa essere il suo nuovo padre- Cesare lo aveva adottato per testamento. I cesaricidi nel giro di tre anni troveranno tutti la morte e per i più sarà violenta. Bruto e Cassio verranno sconfitti da Antonio e Ottaviano a Filippi nel 42 a.C. e moriranno suicidi. Da questo momento in poi la storia è più che nota. Siamo di nuovo alla guerra civile, quella che Cesare prevedeva sarebbe scoppiata con la sua morte. Ottaviano, al temine di uno dei momenti più cupi della Storia di Roma, rimarrà unico in gioco e sarà il vero fondatore dell’impero, portando a compimento il disegno di Cesare, ma in un modo più raffinato e politicamente più accettabile per la vecchia aristocrazia. Di Cesare Antonio Gramsci ha scritto “fu il solo tra tutti i sovvertitori dello Stato, a compiere la sua opera senza essere ubriaco”. Cesare è uno tra, se non IL personaggio più affascinante della Storia, sempre fedele alla causa democratica, ebbe la visione del mondo che stava cambiando. Cesare aveva un sogno: trasformare la vecchia, stanca e ormai obsoleta Repubblica in uno Stato di respiro universale, più moderno e attento alle nuove forze emergenti dell’Impero. Una giustizia sociale più equa e attenta ai bisogni delle masse, ma senza cadere dal popolare al populismo. Cesare è morto. Ma Cesare vive, vive in chi sogna un mondo migliore, degno di poter essere vissuto pienamente, con passione e con dignità. Cesare è morto. Cesare vive. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Luciano Canfora, Editori Laterza, 1999 Il Rivoluzionario Conseguente, Luca Canali- Lorenzo Perilli, Castelvecchi, 2015 La morte di Cesare. L’assassinio più famoso della storia, Barry Strauss, Editori Laterza, 2015 Gli ultimi giorni di Giulio Cesare, Luca Canali, Tascabili Newton, 2011 Delitti e congiure nell’antica Roma, Luca Canali, Piemme Editore, 2002 Annibale e la “Fobia Romana” di Freud, Luca Canali, Carocci, 2008 Giulio Cesare, Jéròme Carcopino, Tascabili Bompiani, ediz. riveduta, 2000 Giulio Cesare, Christian Meier, Garzanti, 2004 Giulio Cesare, Luca Canali, Edizioni Studio Tesi, 1977 Giulio Cesare, William Shakespeare, Newton Compton, 1990 Vite dei Cesari, Svetonio, BUR Rizzoli, 1982 Le Filippiche, Cicerone, BUR Rizzoli, 2017 Storia Romana, Cassio Dione, 44, 19, BUR Rizzoli, 2003 Guerre Civili, Appiano, II, BUR Rizzoli, 2008 Vita di Augusto, Nicola Damasceno, Laterza, 1998 Vita di Cesare, Plutarco, BUR Rizzoli, 2006 Riflessi dell’oratoria reale nei discorsi sulla morte di Cesare: il caso di Bruto AAVV dal WEB.
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Perchè?. Più ci si addentra nel vivo della congiura più vengono fuori ambizioni, grandezze e miserie dei protagonisti. La Storia non è solo un elenco di fatti, ma è come la legge, è interpretabile. Fiumi di parole hanno riempito altrettanti fiumi di pagine e, di volta in volta, di tempo in tempo, i protagonisti sono stati definiti liberatori o assassini spietati. Oggi la tendenza è rispondere alla domanda cui bono? A chi giova? Certo non ai congiurati che Cicerone definì amaramente “cuor di leone, cervello di bambini”. Alla Repubblica? Direi proprio di no visti i risultati. Se Cesare fu il grande bozzettista di un nuovo modo di intendere Roma, Augusto ne compì il disegno, dando il via ad un sistema politico del tutto nuovo. Al popolo? Per il popolo nulla cambiò da un passaggio di governo ad un altro, anzi, il populismo propagandistico di cui fu accusato Cesare e dopo di lui gli imperatori, si reggeva sul consenso del popolo, che a più riprese beneficiò di elargizioni e nuovi impulsi economici. Cui bono allora? A nessuno. Fu un’azione efferata quanto inutile. Ma rimandiamo queste considerazioni alla fase conclusiva. Al rientro dalla campagna spagnola l’azione politica di Cesare prende una piega decisamente più assolutista. E chissà? Magari Cesare, era stanco di giocare al gioco delle parti. Forse ritenne che la nuova visione di superamento della vecchia e stanca oligarchia dovesse richiedere un atteggiamento più autoritario o forse, non seppe interpretare il ruolo di mediatore ossequioso, come mezzo per un fine più alto (parte che calzò a pennello ad Ottaviano dopo di lui). “Storici antichi testimoniano l’inasprimento del carattere di Cesare negli ultimi tempi delle sua vita: si tratta evidentemente della deformazione psicologica di un dato politico. Non era, o non era in primo luogo, il carattere di Cesare, la sua politica che doveva inasprirsi trovandosi progressivamente, nel suo attuarsi di fronte a resistenze e difficoltà che non potevano essere superate se non con un dispotismo assoluto, anche se illuminato. Il fatto che nell’ultimo periodo della sua vita Cesare andasse ulteriormente accentrando e “orientalizzando” il suo potere, testimonia indubbiamente anche una deroga dalla pratica della clemenza, e il riconoscimento della necessità di procedere anche contro la legalità formale; ma forse anche il manifestarsi della delusione di Cesare a proposito della capacità pacificamente persuasiva della sua politica.” Così scriveva Luca Canali, partigiano, scrittore, latinista e grande esperto Cesariano. Vabbè ma che aveva fatto Cesare per inasprire così gli animi di tutti? Quali le riforme che tanto sembravano sovvertire alla base le fondamenta della Repubblica ? Antonio Gramsci in uno dei suoi Quaderni dal Carcere definisce Cesare un “dittatore democratico” e indica come la grave crisi del mondo romano fosse lo squilibrio, ormai intollerabile, tra il lusso degli aristocratici parassiti latifondisti e la miseria di masse proletarie alle quali venivano tolte dignità e terre. Questa della redistribuzione della terra è stata a lungo una nota dolente; lo sanno bene i fratelli Gracchi che, prima Tiberio e dopo Gaio ci rimisero la pelle tentando di operare riforme e aggiustamenti... Cesare è un rivoluzionario, razionale, spregiudicato, affrancato da schemi filosofici e religiosi,e la sua fu una rivoluzione laica e visionaria, per la nascita di una cultura nuova, di un’economia e uno Stato universale, in opposizione all’irrazionale e chiusa organizzazione sociale tradizionale. Tanto per cominciare la questione della cittadinanza. Nuove forze sociali premono per il riconoscimento di se stesse: provinciali, uomini nuovi. Galli, Ispanici, suoi ufficiali e centurioni, vengono integrati a rimpolpare la burocrazia senatoria ed equestre romana. Il senato venne portato da 600 a 900 membri. Posso solo immaginare le facce dei senatori “romani de Roma” sedersi accanto e dividere prestigio e potere con quelli che fino al giorno prima erano solo provinciali sottomessi. Cesare emanò leggi contro il lusso e lo spreco eccessivi, assegnò territori demaniali a nuovi piccoli proprietari, rispolverando le riforme gracchiane. E ancora: per le terre da pascolo stabilì che un terzo dei lavoranti, fino ad allora schiavi, fosse di origine libera, cittadini disoccupati. Non basta? Mise dei funzionari e rappresentanti locali di sua fiducia a controllare proconsoli, propretori e pubblicani per sovrintendere al controllo delle tassazioni sui provinciali. Niente più vessazioni e creste! Non condonò completamente i debiti, ma impose che la somma fosse calcolata a prima delle guerre e prima della svalutazione della moneta; una soluzione equa che scontentò tutti, debitori e creditori. Altro che populista. Ultimo ma non ultimo, rese pubblici gli Acta del Senato, cioè le delibere assempleari del Senato, per un’informazione trasparente. E ancora ci chiediamo come mai Cesare doveva morire? E’ un sovvertitore, uno che mattone dopo mattone abbatte il muro dell’accentramento del potere e dei privilegi, che vuole o vorrebbe creare uno Stato sovra-nazionale, accogliendo le nuove spinte progressiste e, per farlo, ricorre all’accentramento dei poteri, superando la vecchia libertas repubblicana a favore di una nuova libertà, per nuovi ceti e nuove forze culturali ed economiche. Tanto, forse troppo e tutto insieme, Cesare ha fretta, ma se si opera una rivoluzione radicale contro i poteri forti, non è così che si procede. Augusto, Cesare mio, guarda Augusto! Festina lente, affrettati lentamente è il motto del vero primo imperatore. Prima il Terrore, come mai ci fu sotto Cesare e poi, passo dopo passo, l’accentramento e le riforme, il tutto mascherato da ossequio e rispetto. In ogni caso Cesare negli ultimi mesi commette una serie di errori che gli alienarono definitivamente nemici e amici, facendo traboccare un vaso ormai colmo. Nelle fonti gli elementi scatenanti del complotto e relativa congiura sono essenzialmente tre. Voglio farveli leggere direttamenti dalle fonti. Per i primi due vi riporterò un passo di Svetonio che nella “Vita di Cesare” così racconta:
”Ma l’odio più grande e implacabile egli se lo attirò con questo fatto: ricevette restando seduto, davanti al tempio di Venere Genitrice, il Senato al completo che era venuto a porgergli parecchi decreti con cui gli conferiva grandissimi onori. Alcuni credono che fosse Cornelio Balbo a trattenerlo mentre stava per alzarsi; altri invece dicono che nemmeno avesse accennato a muoversi, e che avesse perfino gradato con occhio meno amichevole Caio Trebazio perchè lo pregava di alzarsi. E questo suo modo di comportarsi fu stimato intollerabile perchè durante la sfilata di un suo trionfo, quando era passato davanti agli scranni del tribuni della plebe e Ponzio Aquila era stato il solo di quel collegio a non alzarsi in piedi, egli se ne era risentito a tal punto da gridare:” dì un pò, tribuno Aquila, credi anche di poermi riprendere il potere?”. E per parecchi giorni non aveva mai tralasciato di aggiungere, ogni volta che prometteva qualcosa:” Beninteso, col permesso di Aquila”. Per l’ultimo e più famoso, l’episodio dei Lupercali, riporto il testo di Nicola Damasceno (Vita di Cesare), ricco di particolari: “71. […] Nell’inverno si celebrava a Roma una festa (chiamata i Lupercali), durante la quale vecchi e giovani insieme partecipavano a una processione, nudi, unti e cinti, schernendo quanti incontravano e battendoli con strisce di pelle di capra. […] era stato eletto a guidare la processione Antonio; egli attraversava il foro, secondo il vecchio costume, seguito da molta gente. Cesare era seduto sui cosidetti rostri, su un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora. Dapprima lo avvicinò Licinio con una corona d’alloro […] Dato che il posto da cui Cesare parlava al popolo era in alto, Licinio, sollevato dai colleghi, depose il diadema ai piedi di Cesare. 72. Il popolo gridava di porlo sul capo e invitò il magister equitum, Lepido, a farlo, ma questi esitava. In quel momento Cassio Longino, uno dei congiurati, come se fosse veramente benevolo e anche per poter meglio dissimulare le sue malvagie intenzioni, lo prevenne prendendo il diadema e ponendoglielo sulle ginocchia. Con lui anche Publio Casca. Al gesto di rifiuto da parte di Cesare e alle grida del popolo accorse Antonio, nudo, unto d’olio, proprio come si usava durante la processione e glielo depose sul capo. Ma Cesare se lo tolse e lo gettò in mezzo alla folla. Quelli che erano distanti applaudirono questo gesto, quelli che erano vicini invece gridavano che lo accettasse e non rifiutasse il favore del popolo. 73. Su questa vicenda si sentivano opinioni discordanti: alcuni erano sdegnati poiché, secondo loro, si trattava dell’esibizione di un potere che superava i limiti richiesti dalla democrazia; altri lo sostenevano credendo di fargli cosa gradita. Altri ancora spargevano la voce che Antonio avesse agito non senza il suo consenso. Molti avrebbero voluto che diventasse re senza discussioni. Voci di ogni genere circolavano tra la massa. Quando Antonio gli mise il diadema sul capo per la seconda volta, il popolo gridò nella sua lingua: “Salve, re!”. Egli non accettò nemmeno allora e ordinò di portare il diadema nel tempio di Giove Capitolino, al quale, disse, più conveniva. Di nuovo applaudirono gli stessi che prima avevano applaudito. 74. C’è anche un’altra versione: Antonio avrebbe agito così con Cesare volendo ingraziarselo, anzi con l’ultima speranza di essere adottato da lui. 75. Alla fine abbracciò Cesare e passò la corona ad alcuni dei presenti, perché la ponessero sul capo della vicina statua di Cesare. Così fu fatto. In un tale clima, dunque, anche questo evento non meno di altri avvenimenti contribuì a stimolare i congiurati ad un’azione più rapida; esso infatti aveva dato una prova più concreta di quanto sospettavano”. Tre gocce e la misura è colma. E’ ora che partono il vero complotto e la vera congiura. Cassio e Bruto . “De li altri due c’hanno il capo di sotto,
Quel che pende dal nero ceffo è Bruto: Vedi come si storce, e non fa il motto!; E l’altro è Cassio, che par sì membruto. “ Dante Alighieri, Inferno, XXXIV, 64-67. Ed eccoci arrivati ai due protagonisti principali. Dante nella Commedia li schiaffa nel luogo più cupo, nella Giudecca, tra i traditori dei benefattori, insieme a Giuda, condannati ad essere per sempre dilaniati da Lucifero. Direi che è un mònito severo, ma del resto è famoso il detto “ fai del bene e scordatelo”. Questi due personaggi meritano una considerazione più attenta. Chi sono? Cosa li ha spinti, con ruoli e tempi diversi, a uccidere Cesare? Gaio Cassio Longino, era di famiglia nobile e rispettabile, fervente repubblicano, valente e coraggioso generale. Si dice che da ragazzo fece una scazzottata col figlio di Silla, e già da allora mostrò impegno e intolleranza verso qualsiasi forma di governo tirannico. Shakespeare lo descrive per bocca di Cesare alto, pallido e magro “ quel Cassio ha una faccia smunta e famelica; pensa troppo: gli uomini come lui sono pericolosi”. Fu al servizio di Crasso, uno dei tre Triumviri, nella famosa battaglia di Carre, dove Crasso fu sconfitto e ucciso e il nostro Cassio riuscì a mettersi in salvo salvando la vita a non meno di 10.000 uomini. Non male direi. Governatore in Siria, depredò gli abitanti della sua provincia (malcostume piuttosto diffuso) e si guadagnò l’appellativo di Dattero, perchè vendeva e comprava merci siriane, suscitando non poco scandalo tra gli snob aristocratici romani. Molto vicino a Cicerone, negli anni della guerra civile prese posizione al fianco di Pompeo e lo ritroviamo a Farsalo ancora nelle fila pompeiane. Dopo la vittoria di Cesare, Cassio fa un voltafaccia e si avvicina al vincitore. Si è molto discusso sulla clemenza di Cesare. Cesare, che in Gallia aveva sterminato senza rimpianti intere tribù, con la stessa disinvoltura perdonava i suoi nemici. Ovvio. Cesare è un politico accorto, certamente, ma per carattere forse non ama spargimenti di sangue inutili, pur avendo -bisogna dirlo- sterminato intere tribù nel corso delle sue campagne di conquista. Leggendo i Commentari tutto avviene con estrema lucidità, nella logica ferrea del militare razionale dove le ragioni della guerra sono sopra tutto, ma spietatezza no, quella non serve. Si aggiunga che, da fine politico, aveva un’indole pragmatica e l’eliminazione di alcuni nemici che poteva portare alla sua causa gli deve essere sembrata un’azione sciocca e illogica. Luca Canali così scrive:” la clemenza di Cesare aveva come necessaria premessa la degnazione del principe, ossia il concetto che il bisogno di pace sarebbe stato soddisfatto solo nell’ordine di un potere personale fortemente centralizzato: quello del dittatore perpetuo”. Cesare si pone come il fulcro tra gli optimates -chiusi in un mondo stanco e anacronistico- e la nuova “borghesia” emergente municipale, teso verso un nuovo progresso, una nuova visione universale. Tornato a Roma Cassio è inquieto. Ambisce ancora ad incarichi prestigiosi, la pretura urbana e il consolato. Alla pretura Cesare gli preferì Bruto e i due entrarono in urto...divide et impera potremmo azzardare, ma evidentemente non abbastanza... Nella tradizione il ruolo di Cassio nella congiura è unanimamente riconosciuto come quello dell’ideatore. Le fonti ci parlano di un primo nucleo operativo che da tempo, nascosto nell’ombra, organizzava la congiura e solo in un secondo momento, venne avvicinato e coinvolto attivamente Bruto. Bruto mio ma che combini? Sfatiamo subito la diceria che Marco Giunio Bruto fosse il figlio naturale di Cesare. La matematica non è mai stata il mio forte ma all’epoca della nascita del bimbo Cesare aveva 15 anni. Vabbè che Cesare era sempre un passo avanti a tutti, ma non confondiamo i pettegolezzi con la verità. Bruto è uno di quei personaggi sfuggenti e dai contorni indefiniti. Di lui Cesare disse “Bruto non sa quello che vuole, ma lo vuole fortemente”. Se non fosse per la parte che ebbe nella congiura forse sarebbe scomparso tra le pieghe del tempo. La storia è fatta di protagonisti e comprimari e Bruto appartiene a quest’ultima categoria. Si porta sulle spalle un nome importante “Bruto” il fondatore della Repubblica, colui che cacciò l’ultimo re di Roma e che assistette implacabile alla morte dei figli accusati di voler restaurare la monarchia. Altri tempi e altra caratura. Il nostro di Bruto di grande aveva solo il nome, un nome che pesava come un marchio, un nome con la maiuscola. La madre, Servilia, fu sorella di Catone e amante di Cesare. Il padre, anche lui di nome Marco Giunio Bruto, fu tribuno nell’83 a.C., militò tra i populares al seguito di Mario e venne ucciso per questo, durante la guerra civile, dal luogotenente di Silla, Pompeo. Sì proprio quel Pompeo! Quando Cesare attraversa il Rubicone e scoppia la seconda grande guerra civile, il ragazzo si schiera dalla parte di Pompeo. In molti se ne sono chiesti la ragione e questa è una e una sola: Catone. Lo zio, unico tra tutti i protagonisti della vita di Cesare che non fu mai bandieruola politica, ebbe grande ascendente sul ragazzo, forgiandolo nei principi del mos maiorum, libertas, Res Publica, stoicismo. Da Catone ebbe anche altro, la figlia Porcia in moglie, donna forte, di alti princìpi, che avrà un ruolo non secondario nella vicenda della congiura. A Farsalo, dopo la sconfitta di Pompeo, Bruto cambia idea e si allea con Cesare dal quale non solo è perdonato, ma in premio ha il governo della Gallia Cisalpina e poi la pretura urbana di Roma. Ma di notte il fantasma di Catone visita i suoi sogni e di giorno è la moglie Porcia, determinata quasi o più del padre a ricordargli il suo retaggio. Il ragazzo, frastornato e indeciso, è sballottato di qua e di là, tra le convinzioni del passato e una nuova visione politica ampia, aperta e sconcertante; una figura carismatica, affabile e quasi paterna quella di Cesare, che tutto perdona e tutto offusca con la sua luce. E Bruto è un’ombra, un’ombra vaga e indefinita che, nel buio dell’ottusità, verrà avvicinata con fredda determinazione da chi invece le idee ce l’ha e molto chiare, Cassio. Cesare deve morire e perchè questo possa accadere serve un nome, ma non un nome qualsiasi, uno che incuta soggezione e rispetto, uno che richiami alla mente azioni grandiose e memorabili, serve un “Bruto”. E così fu. .....continua |
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March 2023
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IRENE SALVATORI |
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