LE DONNE DI BERNINI. TRA SACRO E PROFANO Irene Salvatori Nella Storia dell’Arte incontriamo bravi artisti, eccellenti artisti e i fuori classe a furor di popolo acclamati come geni. Gian Lorenzo Bernini appartiene senza alcun dubbio a quest’ultima categoria. Bernini nasce a Napoli nel 1598 e nel 1605 si trasferisce a Roma con i fratelli e il padre Pietro, scultore di una certa fama che, arrivato nell’Urbe, viene nominato presidente della prestigiosa associazione degli artisti all’Accademia di San Luca. In quel momento Roma è un cantiere a cielo aperto, ovunque chiese e associazioni religiose sono alla ricerca di scultori e architetti per decorare e rinnovare i sacri edifici, nell’ambito della ritrovata ed energica religiosità della Controriforma. Il giovane Lorenzo respira arte e polvere di marmo già in tenera età e sembra abbia dato prova del suo genio da enfant prodige già da adolescente. A Roma il soglio papale è retto con fermezza da Paolo V Borghese il quale, venuto a conoscenza delle doti del ragazzo a mezzo del nipote Scipione, lo introduce nel mondo delle commissioni che contano. Oggi visitando la Galleria Borghese, vanto di Roma e patrimonio riconosciuto del Mondo, tra le infinite opere dei più grandi maestri possiamo ammirare due gruppi scultorei e i primi due personaggi femminili sui quali vorrei soffermarmi: Dafne e Proserpina. Tra sacro e profano /privato e pubblico, Bernini ama con passione le donne e, al contempo, le sublima immergendole in un’aura di estatica bellezza. La Dafne e la Proserpina sono lavori di un poco più che ventenne Gian Lorenzo. Grande il richiamo alla classicità delle forme ma altrettanto evidente è la ricerca della luce e dell’effetto teatrale e illusionistico, per i quali il nostro protagonista è passato alla storia e per i quali è considerato il grande maestro del Barocco. Dafne, associata ad Apollo racconta un episodio delle metamorfosi di Ovidio in cui il dio, invaghitosi della ninfa, cerca di possederla, ma la fanciulla, pur di non sottostare alla violenza del divino inseguitore, chiede aiuto al padre Peneo, dio del fiume. Il padre la trasforma dunque in un albero di alloro. Il gruppo racconta quest’ultima parte della storia. L’insieme statuario nasce non solo per narrare ma per rendere partecipe chi guarda della tragedia in atto. L’osservatore si fa testimone ed è chiamato ad interagire attivamente nella vicenda della quale coglie, girando intorno al gruppo scultoreo, il momento della corsa, del raggiungimento della fanciulla e, immediatamente dopo, la sua trasformazione. Il pathos sul volto di Dafne è magistrale, il senso del movimento è ovunque, dal drappo del dio e dalla gamba alzata di questi, ai capelli della donna. Il giochi di luce e ombra e l’alternanza di pieni e vuoti creano un insieme drammatico e armonico. Alla concentrazione di Apollo si contrappone il volto mobile di Dafne, dalla cui bocca esce un ultimo e strozzato grido di terrore. Quest’opera fu terminata nel 1625 e ebbe subito il plauso entusiasta dei contemporanei. Sulla base della statua è inciso un distico composto da Maffeo Barberini, scritto per poter far entrare un’opera di chiara matrice profana nella casa di un cardinale “chi ama seguire le fuggenti forme dei divertimenti, alla fine si trova foglie e bacche amare nella mano”. Ancora nella Galleria, possiamo vedere un’altra scena di grande pathos nell’altra celebre scultura di Plutone e Proserpina. Chiunque veda quest’opera rimane incredulo nel pensare che davvero sia di marmo, devo ammettere che anche io rimango incredula e ammirata ogni volta. Il gruppo fu scolpito tra il 1621 e il 1622, commissionato dal cardinal Scipione per il cardinal Ludovisi. Nel 1908 fu comprato dallo Stato italiano e da allora è nuovamente nella Galleria Borghese. La storia è nota, e attinge ancora una volta a quel repertorio mitologico tanto amato dalla committenza intellettualmente brillante del diciassettesimo secolo. Plutone, dio degli Inferi rapisce Proserpina, figlia di Gea, la terra. Gea chiede l’intercessione di Giove per far tornare per metà dell’anno la figlia nel mondo dei vivi. Ogni anno dunque in primavera la terra si prepara, gioiosa, all’arrivo della fanciulla, ricoprendosi di fiori, per poi trionfare al suo arrivo in estate, intristirsi in autunno e congelarsi nel dolore in inverno. E’ il modo poetico in cui gli antichi raccontavano l’alternarsi della stagioni. Anche per quest’opera si richiede l’intervento attivo dell’osservatore. Le sculture di Bernini interagiscono con lo spettatore e in questa, in particolare, muovendoci da sinistra, vediamo dapprima il rapimento, frontalmente assistiamo al trionfo di Plutone e solo alla fine ci appare Proserpina con lo sguardo verso il cielo, in una richiesta di aiuto vana, mentre lacrime di dolore le cadono sul viso. Ancora una scena di violenza chiusa in un movimento elicoidale che unisce, in un unicum drammatico, le due figure. Proserpina è viva, e ogni analisi stilistica più o meno intellettuale alla fine deve arrendersi a questo, la vita infusa nella pietra. La mano di Plutone sulla coscia della fanciulla trascende la durezza del marmo per essere altro, diventa carne. La luce rimbalza veloce tra i pieni e vuoti donando un effetto ancor più drammatico, violento e dinamico alla scena. Due donne dal mondo profano e due momenti di terrore catturati e resi per sempre. Luce e ombra raccontano di violenza, di arditi e non corrisposti amori. E’ barocco ed è sublime. Le fortune di Bernini, non a caso l’artista unanimemente acclamato come immenso nella sua e nelle epoche successive, ebbero alterne vicende, strettamente legate alle personali simpatie o antipatie dei papi che si succedettero al soglio di Pietro. Fu osannato da Urbano VIII Barberini ed è proprio in questo momento che vanno collocati due episodi determinanti per la sua vita: la sua nomina ad Architetto della Fabbrica di San Pietro e l’episodio del quale parlò tutta Roma, legato al grande amore della sua vita, Costanza Bonarelli. Nel primo episodio è da vedere la genesi di quella rivalità leggendaria con l’altro grande del tempo, Francesco Borromini che, vicinissimo a Maderno, non perdonò l’affronto di aver posto in ombra l’ormai anziano e amato architetto. Il secondo episodio ci rivela molto dell’animo di Gian Lorenzo. Tanto brillante e diplomatico nella vita pubblica quanto passionale e violento in quella privata. Costanza era la moglie di Matteo Bonarelli, assistente di Bernini assunto nel 1636 per lavorare al monumento di Matilde di Toscana. La passione tra Gian Lorenzo e Costanza è immediata. Di lei, il suo focoso amante non ha lasciato scritti o lettere d’amore ma qualcosa di più, un busto, uno dei pochi ritratti di donna che scolpì e l’unico senza una specifica commissione. L’intimità e la sensualità sono esplicite. Costanza è ritratta al di là del formalismo e della retorica dei ritratti ufficiali, è colta in un momento di quotidianità, una donna vera, colta quasi di sorpresa. Gli abiti e i capelli non hanno ornamenti. La veste leggermente aperta su seno e i capelli appena raccolti sulla nuca sembrano raccontare di una donna che si è appena alzata dal letto. Lo sguardo sembra stupito, e le labbra socchiuse un invito o una parola non detta. Bernini si definì fieramente innamorato e questo ritratto, così lontano dalla sua ritrattistica ufficiale, sembra esserne la prova. Ma la tragedia incombe. Nel maggio del 1638 a Roma corre la notizia di una lite violenta tra Gian Lorenzo e il fratello Luigi. Sembra che Bernini, appostatosi fuori dalla casa di lei, ne abbia visto uscire il fratello in un atteggiamento molto più che amichevole. Furioso Bernini insegue Luigi fino in San Pietro, e là lo ferisce gravemente. Ma fece di più. Costanza la bella doveva pagare per il tradimento. Bernini inviò quindi un suo servo con un rasoio a sfregiare quel viso tanto amato. Solo per la cronaca: del marito di Costanza nessuno parla, neanche un accenno. Luigi pensò bene di allontanarsi da Roma. Solo per intercessione della madre, Gian Lorenzo non fu severamente punito, ma se la cavò con una multa di 3000 scudi. In seguito Urbano VIII convinse Bernini a prender moglie e, il 15 maggio del 1939, lo scultore convolò a nozze con la giovane e bella Caterina Tezio, la ragazza più bella di Roma a quanto si dice, e da lei ebbe 11 figli. Eppure di questa passione, d’amore e di coltello, a lungo si pettegolò nell’Urbe. A noi rimane solo l’incredibile ritratto che l’artista non distrusse mai, il ritratto di una donna amata. Come abbiamo accennato, le fortune di Bernini furono altalenanti. Morto papa Urbano VIII, sale sul soglio pontificio Innocenzo X Pamphili, il quale preferì avvalersi della collaborazione dell’inquieto Borromini e dei Rainaldi piuttosto che di Bernini. Di questo periodo è una delle due opere relative al sacro delle quali mi sono prefissa di parlare; sculture, se possibile, di impatto emotivo ancor maggiore delle precedenti. Nel 1647 lontano dal plauso papale, Bernini viene raggiunto da una commissione privata da una di quelle famiglie presso le quali ancora godeva di stima e ammirazione. Il cardinale Federico Cornaro incaricò Gian Lorenzo di risistemare la cappella di famiglia, nella piccola Chiesa di Santa Maria della Vittoria, e quel che ne venne fuori fu un capolavoro di architettura e scultura senza pari del quale lo stesso scultore si compiacque “il Bernino medesimo era solito dir essere stata la più bell’opera che uscisse dalla sua mano”. Una delle caratteristiche del barocco berniniano è la teatralità, la scelta cioè di trasformare l’esperienza scultorea e architettonica in rappresentazione teatrale. In questo caso ancora di più poichè la cappella stessa viene trasformata in un teatro con spettatori che dai palchi laterali assistono partecipi alla Tranverberazione di Santa Teresa, e i visitatori della cappella, ancora oggi, sono chiamati a osservare ciò che accade tra il pubblico e sulla scena. Bernini scelse di rappresentare un momento preciso seguendo non solo le indicazioni del committente ma le parole stesse della santa. “Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l’angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio”. L’estasi della santa è spirituale e corporeo al punto che molti ne hanno fatto un’analisi psicoanalitica parlando di erotismo sacro. La Santa libra nell’aria con le vesti scomposte mentre un angelo sorridente impugna la lancia dell’amore/dolore. In ogni esperienza mistica che ci sia giunta il binomio corpo/spirito è presente e legato indissolubilmente. È attraverso l’esperienza corporea e la sua trascendenza che si arriva all’unione mistica con il divino. Dalla materia alla spiritualità più intensa e più pura. Il volto di Teresa è levigato e giovane, a ricordo delle testimonianze di chi assistette alla sua morte. Teresa aveva ormai settanta anni, ma al momento della morte parve a tutti un bellissima fanciulla. L’estetica sublime e la drammaticità del volto della donna trasformano ancora una volta il marmo in cera. È un’opera dal virtuosismo tecnico insuperabile che tocca il cuore e rende partecipe chi guarda del miracolo che sta accadendo. Per creare un effetto ancor più dinamico e drammatico, Bernini pose una finestra sopra l’altare e il gruppo scultoreo, in modo che la luce arrivasse a colpire le figure dall’alto e, con i raggi in bronzo dorato, lo spettatore potesse percepire la presenza concreta dell’azione divina. Un capolavoro che ancora oggi lascia senza fiato. Un consiglio? Andate a vederlo, vi lascerà senza fiato. Finito il pontificato di Innocenzo X le fortune di Gian Lorenzo tornarono vigorose con papa Alessandro VII. Da questo momento la carriera di Bernini è trionfale. Gli ultimi anni della sua vita lo trovano anziano ma ancora creativo e vigoroso. È di quest’ultimo periodo l’ultima rappresentazione del sacro femminile di cui vi voglio raccontare. La famiglia Altieri possedeva una piccola cappella nella chiesa di San Francesco a Ripa e decise di dedicare un altare a una terziaria francescana, Ludovica Albertoni, vissuta tra il 1474 e il 1533, la quale era stata beatificata nel 1671, per quelle esperienze di visioni mistiche tanto apprezzate dalla Chiesa del ‘600. La famiglia Altieri, con l’illustre precedente della rappresentazione di Santa Teresa non dubitò per un attimo che l’unico degno di tale commissione fosse Bernini. L’ormai settantenne scultore ancora volta trasformò la pietra in cera. Di nuovo fece della cappella una quinta scenografica, creando due pareti leggermente inclinate e aprendo una finestra sulla parete immediatamente sopra la testa della Beata. Il piccolo spazio sopra l’altare fu trasformato nel letto di Ludovica Albertoni che è colta nel momento culminante dell’estasi mistica. Sono molti i richiami con l’estasi di Santa Teresa. Anche qui il volto della donna è colto nel momento culminante della visione mistica. Corpo e spirito ancora una volta si fondono nel divino, senza negarsi a vicenda, al contrario compenetrandosi e trovando il senso più profondo di Dio nella partecipazione di entrambi alla contemplazione della verità. Il piacere mistico è piacere corporeo sublimato. A noi che oggi ammiriamo questo capolavoro mostra la rappresentazione di quel qualcosa che potremmo chiamare indefinibile, trascendente. Luce e ombra accentuano e forse diventano la metafora del corporeo e dello spirituale. Un capolavoro, le parole non aggiungono nulla a questa semplice verità. Eccoci arrivati alla fine di questo breve racconto. Bernini morì il 28 novembre 1680, ricevendo la benedizione di Papa Innocenzo XI. Morì nella sua casa e fu sepolto in Santa Maria Maggiore dove tutto era cominciato. “C’era così tanta gente intorno alla salma che fu necessario l’indugiare alquanto di tempo a dar sepoltura al corpo”. Cosi’ ci descrive Baldinucci, suo biografo, la calca di persone che si affollarono per rendere l’ultimo saluto all’immenso artista. Sembra uno strano scherzo del destino, ma l’uomo che aveva cantato la bellezza femminile, plasmandola ed eternandola in capolavori che oggi sono tra i più grandi della storia dell’arte, ebbe per sé una sepoltura modesta, una semplice lapide sul gradino… “IOANNES LAURENTIUS BERNINI Decus artium et urbis hic humiliter quiescit (qui riposa Gian Lorenzo Bernini, gloria delle arti e della città) Foto da WEB
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March 2023
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